Sono passate più di tre settimane dallo scoppio dell’emergenza coronavirus e siamo ben lontani dall’avere un’idea precisa della reale diffusione dei soggetti positivi e ancor meno dell’ambito dei contagi possibili. La decisione estrema di confinare indiscriminatamente tutti gli italiani ai domiciliari per due (molto probabilmente più) settimane non dà ancora segni tangibili di rallentamento del tasso di crescita del contagio, né del suo contenimento sul territorio. Impossibile in questa situazione capire gli effetti delle politiche di mitigazione messe in atto e modificarle rapidamente se necessario.
L’Organizzazione mondiale della sanità è stata univoca: tracciate ogni contatto, testate, isolate e curate. In Italia si polemizza, i tamponi sono stati fatti a campione, senza un protocollo omogeneo, usandoli anche su pazienti deceduti per altre patologie ma risultanti anche affetti da Covid-19. Un’informazione non prioritaria, un dataset utile alle autorità sanitarie per analizzare e prevedere la diffusione geografica del virus. Infatti, senza controlli a tappeto, gli asintomatici continuano a circolare ed è toccato arrivare al lockdown dalla penisola.
C’è un oggettivo collo di bottiglia: attualmente la capacità di picco è di 15 mila test in un giorno su scala nazionale, secondo i dati della Protezione Civile. Per questo in rete c’è un appello di epidemiologi, virologi e scienziati che chiede al Governo di scalare la capacità diagnostica autorizzando tutti i laboratori tecnicamente capaci di fare i tamponi comunicando i dati alle regioni. Ignaro o incauto, nelle stesse ore, il governatore del Veneto promette: “Faremo il tampone a tutti a nostre spese: fino a 25 mila test al giorno con il risultato in 4 ore”.
La strategia degli accertamenti capillari, garantendo una grande trasparenza sulla localizzazione dei singoli casi sul territorio, è un buon punto di partenza, ma non basta. Serve anche il ricorso alle tecnologie per ricostruire la catena trasmissiva in modo conforme alla leggi sulla privacy. Si cita il modello seguito in Cina, in Corea o anche a Taiwan, ciascuna esperienza dispiegata con un diverso grado di tutela delle libertà individuali. Anche Israele si muove nella direzione di un’ampia tracciatura.
In Italia un gruppo di studio di informatici, data scientist, esperti di modelli e processi organizzativi, sta ragionando sulla possibilità di integrare tutti i flussi informativi a partire anche dal tracciamento del cellulare per capire dove ci sono zone a rischio e realizzare un cruscotto emergenza digitale per autorità sanitarie capaci in questo modo di interventi mirati.
La questione ha prevedibilmente acceso un vivace dibattito. Possibilista con cautela il Garante della Privacy: “Non esistono preclusioni assolute nei confronti di determinate misure in quanto tali. Vanno studiate però molto attentamente le modalità più opportune e proporzionate alle esigenze di prevenzione, senza cedere alla tentazione della scorciatoia tecnologia solo perché apparentemente più comoda”. Opposizione feroce di altri, principalmente dettata da conoscenza superficiale della tecnologia di tracciamento con utilizzo di Big Data che si può fare in modo anonimo. Così avvenne già nel lontano 2006, ricorda Alfonso Fuggetta, direttore del Cefriel, centro di innovazione digitale del Politecnico di Milano, con il progetto pilota Real Time Rome che usava i dati dei telefoni cellulari condivisi su larga scala e anonimizzati per sapere le condizioni del traffico nella Capitale in tempo reale permettendoci di cambiare contestualmente i nostri percorsi.
Si tratterebbe di misure controllate e mirate, per applicare le quarantene dove realmente servono, controllarne in modo selettivo l’osservanza e impedire le falle. Facciamo un esempio. Paolo esce di casa e si reca al lavoro. Il sistema di geolocalizzazione real-time lo nota e gli invia per SMS la richiesta di dichiarare perché sta uscendo di casa con un comodo link mobile di compilazione. Paolo non lo compila. Il sistema dopo due ore rileva che non lo ha ancora compilato, e rinotifica Paolo ricordandogli le sue responsabilità. Passa un’altra ora senza modulo e un call center lo chiama per chiarire e raccogliere la sua dichiarazione. In caso la situazione non sia chiarita o sia ripetuta, intervengono le forze dell’ordine in modo mirato. Il meccanismo servirebbe anche a rilevare il maggior rischio di contagio per vicinanza a soggetti positivi. Nel suo tragitto al lavoro, alla stazione di scambio, Paolo è sulla banchina assieme a una persona che riceve sul cellulare i risultati del suo tampone e le raccomandazioni del caso nel recarsi alla più vicina struttura sanitaria deputata. In contemporanea il sistema di geolocalizzazione rileva in tempo reale tutte le persone con cui il soggetto si trova o si è trovato nelle vicinanze nelle ultime ore (o giorni) e invia la notifica a questi ultimi assieme alle indicazioni sul comportamento da seguire. Per migliorare l’efficacia, l’algoritmo può essere impostato per affinare le notifiche e allertare solo coloro con cui il soggetto positivo è entrato in contatto almeno x volte nell’arco di x ore/giorni.
L’efficacia procedurale del contact tracing si conferma nei bollettini sanitari dei Paesi che lo hanno adottato; anche se va riconosciuto che in Cina ha aiutato lo Stato autoritario, mentre nella democratica Corea del Sud ha giocato a favore un sistema valoriale, detto “Nunchi”, un misto di empatia, valori civili e buone maniere, secondo cui ognuno antepone ai propri interessi individuali la considerazione per quelli degli altri.
In attesa di trovare un consenso sulle soluzioni tecnologiche più avanzate, non sarebbe rassicurante per i cittadini agitati e disorientati dall’infodemia di notizie contraddittorie, ricevere un SMS dalla Protezione Civile, un messaggio univoco in linguaggio semplice e chiaro su cosa si può e cosa non si deve fare?