“Mentre in altri Paesi d’Europa si sta iniziando ora a fronteggiare l’epidemia, noi abbiamo già introdotto le norme a favore del mondo produttivo. I territori interessati ora possono ripartire e con essi anche l’Italia”, dice il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro, grillino, e lo dice serio serio, dopo un Consiglio dei ministri fiume, finito attorno a mezzanotte, che ha deliberato ciò che onestamente poteva, cioè poco e niente.
Le solite cose che si deliberano d’urgenza a favore delle zone colpite da una calamità naturale, di quelle tipiche italiane contro le quali non s’è mai fatto niente pur conoscendone la ripetitività, come terremoti e inondazioni: sospensione dei versamenti e delle utenze, e quindi dei pagamenti di bollette e rate dell’assicurazione. Un accesso gratuito e prioritario al Fondo di garanzia per le Pmi, che viene rifinanziato, e un aumento delle risorse per il sostegno delle imprese esportatrici. Di quelle delle “zone rosse”. Ma vista dall’estero, tutta l’Italia è una zona rossa. Visti dall’estero, tutti noi italiani siamo untori.
Non s’è parlato, al momento, di cifre: improprio non farlo, per dei provvedimenti di natura economica, ma tant’è. Non ne ha fatto menzione nemmeno il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che inizia a essere un po’ strano nella sua imperturbabilità, mentre attorno a lui, dal premier in giù, sembrano tutti trafelati. Sarà un merito? Forse sì, per quanto sia solo lui al governo quello in grado di sapere se l’Europa ci darà una mano, permettendoci di sforare il tetto del 3% del deficit, unico modo possibile per finanziare con qualche soldo vero non tanto la ripresa economica – quella verrà se potremo e quando l’epidemia svaporerà – ma la copertura dei danni catastrofici che interi settori vitali della nostra economia stanno subendo.
Le famose “quattro A” dell’Azienda Italia sono a terra: l’abbigliamento, con le sfilate senza pubblico, il 40% dei buyer internazionali in meno, i compratori cinesi senza fiato; l’arredamento, col Salone del Mobile – ad oggi la fiera italiana più importante del mondo – rinviato di due mesi insieme al fatturato diretto da 1,3 miliardi che sviluppa ogni anno e che innesca un fantastico indotto; l’alimentare, che diventa fatalmente sospetto di essere un potenziale vettore di contagio, non lo è per nulla ma certamente può sembrarlo agli occhi di uno straniero sprovveduto; e l’automazione, perché se si ferma la grande “officina del mondo”, qual è stata improvvidamente resa la Cina dalla speculativa concentrazione di subforniture affidatele negli ultimi vent’anni in primis da americani e tedeschi, tutte le filiere che vivevano delle sue forniture si fermano e smettono, per un po’, di comprare anche da noi italiani le meravigliose macchine robotiche che produciamo.
E poi il turismo: una gelata senza precedenti, con concorrenti bravissimi e famelici, dalla Spagna alla Grecia, pronti a spartirsi le spoglie de nostri danni.
Non una parola per tutto ciò, e non un euro vero, dal Consiglio dei ministri di ieri.
Ma come non capirli? Un governicchio tenuto su con lo sputo, con l’unico collante per i due terzi degli attuali parlamentari di volersi salvare a tutti i costi e il più a lungo possibile una poltrona che non rivedranno mai più nella vita; un governicchio di ministri sprovveduti – Speranza alla Salute si sta rivelando valoroso, ma Gualtieri non è pervenuto – che annaspano privi di esperienza e del supporto necessario, e fino a ieri di regola fornito da tecnostrutture che puntano soltanto a pararsi il sedere.
Una compagine così malconcia, guidata da un discreto avvocato ubriacatosi di visibilità e dunque da qualche giorno meno popolare per gli annunci contraddittori fatti e corretti, come potrebbe raddrizzare le storture di oltre trent’anni di malgoverno? Sì, trentacinque anni: dagli ultimi anni Ottanta, con l’ubriacamento del potere del pentapartito, canto del cigno della prima repubblica, alla devastazione controproducente di Tangentopoli, alla paradossale stagione berlusconiana, agli anni del bipolarismo negato, alla fantozziana supplica all’Europa di lasciarci entrare a qualunque costo, al costo abnorme che Romano Prodi e gli altri anti-italiani hanno fatto pagare al Paese, fino alle pendolari inefficienze del Polo delle Liberà e dell’Ulivo…
Trentacinque anni obbrobriosi che, caduto Berlusconi sulla montagna dei suoi errori e della loro ridicolaggine, ci hanno lasciati nelle mani di nessuno.
Se oggi il coronavirus ci spaventa – e deve spaventarci – non è per la sua virulenza, fortunatamente lieve come modesto è il tasso di mortalità: è per la necessità, insoddisfattibile, di disporre dei necessari posti letto ospedalieri in terapia intensiva. In Italia ne esistono appena 5mila, il 5% almeno dei malati di Covid–19 ha bisogno di esservi ricoverato per non morire, dunque se 100mila italiani si ammalassero, quei posti non basterebbero più. Forse perché negli ultimi dieci anni 37 miliardi di euro di spesa pubblica sono stati sottratti alla sanità?
E quanta reattività può mai avere un sistema decisionale pubblico decotto come il nostro se si volessero costruire altri 5mila posti letto in terapia intensiva? Zero. Li costruiremmo in dieci anni, non in dieci giorni come hanno fatto i cinesi, pur sbocconcellando topi vivi, come li rimprovera animosamente Luca Zaia, perdendo una buona occasione per tacere.
Cosa potrebbe fare dunque il governo Conte, di virtuoso? Semplicemente dire la verità: non abbiamo i soldi per gestire l’emergenza, se l’epidemia non si ferma subito e da sola andremo in Europa col cappello in mano a chiedere i soldi. Se il premier o Gualtieri dicessero cose del genere, sarebbero per lo meno rispettabili.
Ma non lo fanno, o non ancora. E allora diamo pure un’occhiata distratta al comunicato emesso ieri sera da Palazzo Chigi. Ma non facciamoci illusioni.