Ad aprile arriverà un nuovo decreto per affrontare l’emergenza coronavirus in Italia con stanziamenti che, come ha spiegato il Premier Conte riferendo alle Camere, non saranno inferiori ai 25 miliardi già messi in campo con il dl cura Italia. Come ha spiegato il viceministro dell’Economia, Antonio Misiani, in un’intervista al Foglio, “ci muoviamo in base alla sospensione del Patto di stabilità e crescita decisa da Bruxelles. Consapevoli certo che poi bisognerà rientrare”. Il Governo metterà quindi sul piatto, complessivamente, 50 miliardi di euro: «noccioline», come li definisce Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, pensando alla crisi da affrontare.
Professore, cosa pensa di quanto detto da Misiani, soprattutto sulla necessità di “rientrare”?
Voglio pensare che sia una dichiarazione politica, perché se fosse di contenuto sarebbe scoraggiante. Noi non riusciremo a diminuire il rapporto debito/Pil a meno che l’economia non riprenda a crescere più di quanto avvenuto con gli zero virgola degli ultimi anni. Se ciò avvenisse, allora avremmo la possibilità di aumentare il nostro già consistente avanzo primario. Se la dichiarazione di Misiani non fosse politica, allora gli chiederei: bisognerà rientrare quando? Perché se dobbiamo farlo quest’anno o il prossimo, allora aspettiamoci l’ennesima manovra di austerità.
Sarebbe inevitabile?
Se vogliamo ragionare su un progetto per assorbire questa violentissima crisi e rimettere in piedi il Paese per crescere, allora il problema di rientrare non si pone. Con cosa potrà mai ripagare il Paese un debito crescente se non con un gettito di maggiori entrate che esisteranno in quanto l’economia andrà meglio? Vogliamo forse diminuire le spese, magari quelle della sanità, come abbiamo fatto negli ultimi dieci anni?
Qualcuno potrebbe dire che possiamo ripagare il debito con una patrimoniale…
Sarebbe pura follia, un invito al disastro. Si possono immaginare altre formule, come l’offerta di titoli di stato indirizzata ai residenti con trattamenti di favore sul piano fiscale.
Se 50 miliardi sono “noccioline”, qual è la cifra che occorre mettere sul piatto? E per cosa?
Se non interveniamo subito, come di fatto ha detto Draghi nella sua intervista al Financial Times, ci ritroveremo dietro l’angolo una situazione come quella della crisi degli anni Trenta. La ricetta da seguire è semplice: il Paese ha bisogno di investimenti, sia pubblici che privati, dopo i tagli continui e impressionanti che si sono susseguiti dal 2010. Leggo sui giornali che da Bruxelles dicono che ci sono soldi per gli investimenti pronti per l’Italia: allora usiamoli! Facciamo un decreto di urgenza che consenta di attivare per le imprese immediatamente una montagna di investimenti produttivi.
Non mi ha risposto però sulla quantità dell’intervento…
Con il precedente decreto e quello che verrà ad aprile è come se si cercasse di mettere una toppa alla situazione, per sostenere le persone rimaste senza reddito. Ma si tratta di un intervento di emergenza, necessario, che non dovrebbero essere conteggiato, dovrebbe essere una posta di bilancio one-off, come si usa dire. Un intervento quindi da fare una volta sola, non uscite strutturali che continueranno in modo indefinito e che in un’Europa solidale non dovrebbero essere accollate ai singoli Stati. Distinguendo l’eccezionalità da quella che dovrebbe essere la normalità, bisogna dedicare almeno due punti di Pil esclusivamente agli investimenti, quindi altri 50 miliardi.
Nel frattempo ci sono imprese che stanno soffrendo o perché impossibilitate a proseguire la propria attività o perché non adeguatamente sostenute. Cosa ne pensa?
Ci sono due aspetti da considerare. Il primo è che così come il mondo è interconnesso, lo sono anche le filiere produttive. Non si può quindi immaginare, parlando di attività essenziali che possono restare aperte, di garantire genericamente i prodotti che troviamo sugli scaffali di un supermercato senza avere consapevolezza dell’enorme catena produttiva che c’è dietro. Il secondo è che sarebbe importante che ci fosse anche un dialogo tra imprese e sindacati, perché gli interessi dei lavoratori e delle aziende oggi coincidono, mettendo anche i primi nelle adeguate condizioni di sicurezza per poter continuare a produrre. E questa è una responsabilità delle imprese.
(Lorenzo Torrisi)