Il coronavirus continua a rappresentare un’incognita importante sull’economia globale. Secondo la banca d’affari giapponese Nomura, l’Italia è destinata a entrare in recessione quest’anno, anche per l’effetto che l’epidemia cinese sta avendo sui flussi turistici. Il già basso tasso di crescita stimato per il nostro Pil finirebbe quindi sotto zero, in un range tra il -0,1% e il -0,9%. Mario Deaglio, Professore di Economia internazionale all’Università di Torino, non è così pessimista: «Sono andato a vedere i dati sulle presenze turistiche cinesi in Italia e corrispondono a circa il 3% di quelle complessive dall’estero. Non va poi dimenticato che ci saranno molti stranieri che non andranno più in Cina: chissà che qualcuno di questi non venga in Italia. Certo ci saranno mete particolari che potranno soffrire l’assenza di turisti cinesi, anche se in questi giorni sono stato a Venezia e ne ho visti tanti, segno che il blocco dei voli diretti tra Italia e Cina è aggirabile passando da un altro aeroporto europeo».
Non bisogna dunque preoccuparsi troppo?
Sarebbe un errore prendere sottogamba la situazione, che non è nera, ma è pur sempre grigia. Sicuramente tornare alla “normalità” non sarà facile e ci vorrà del tempo, non credo a chi dice che il rimbalzo sarà automatico una volta passata l’emergenza, anche perché le fabbriche sono passate dalla piena produzione alla chiusura. L’ombra sull’economia globale c’è, non la sappiamo pienamente valutare, ma è sicuramente importante: per usare un’immagine legata all’ambito sanitario, può andare da un brutto raffreddore con febbre a una polmonite.
Questo per quanto riguarda l’economia globale. Per l’Italia invece come vede la situazione?
L’Italia, che ha un tessuto imprenditoriale culturalmente attrezzato per gestire le emergenze, dovrebbe risentirne un po’ meno degli altri. Per il nostro Paese i problemi non li vedo nei prossimi sei mesi, ma nei prossimi sei anni. Occorrerebbero seri ragionamenti di politica economica, se solo i politici sapessero qualche cosa di economia.
Recentemente lei ci ha ricordato che la Cina rappresenta un’opportunità economicamente importante per l’Italia. Pensa che quanto sta accadendo e le recenti tensioni tra i due Paesi possano far cambiare il quadro?
Non certo la questione dei voli diretti sospesi. Abbiamo poi visto molta collaborazione tra i due Paesi in occasione dei rimpatri dei nostri connazionali. Ci sono ben altri dossier importanti tra noi e i cinesi, vista la partecipazione in Pirelli e la volontà, se possibile, di entrare con quote di minoranza in strutture pubbliche. Vista la situazione tutto è però per il momento sospeso.
L’Italia rischia di subire dei contraccolpi indiretti nel caso le esportazioni tedesche in Cina dovessero diminuire?
Sì e qui la cosa si fa più seria, perché rischieremmo di avere nello stesso momento la Cina che indirettamente colpisce le esportazioni europee, quindi una parte della produzione italiana, e gli Stati Uniti che introducono i dazi sui nostri prodotti. Bisognerà tenere sott’occhio nelle prossime settimane l’andamento degli ordini esteri. Non solo del nostro Paese, perché la Cina potrebbe ordinare meno dalla Germania, quindi i tedeschi, finite le commesse attuali, a loro volta diminuirebbero gli ordini dall’Italia.
Si può fare qualcosa per evitare gli effetti negativi che questa situazione potrebbe avere sulla nostra economia?
A mio avviso è importante che nel nostro Paese si facciano gli investimenti pubblici. È questo il momento per agire: la crisi non c’è ancora, ma se andiamo avanti con questo orizzonte grigio… Ovviamente occorre che l’Ue ci lasci fare questi investimenti e saranno fondamentali le trattative sul tema all’interno dell’Unione.
Meglio gli investimenti pubblici che misure come quella, di cui si parla in questi giorni, del taglio dell’Ires per chi riporta la produzione in Italia?
Penso proprio di sì, perché ammesso che qualcuno scelga di riportare la produzione in Italia, occorre del tempo perché ciò si concretizzi: può volerci anche un anno. Trovo anche strano che si remuneri con uno sgravio fiscale il semplice ritorno della produzione in Italia. Diventerebbe allora quasi conveniente andarsene per poi ritornare. Inoltre, le stime dicono che le risorse stanziate per gli investimenti pubblici finiscono per l’80% circa ad alimentare il valore aggiunto italiano, mentre di quelle destinate a stimoli generici all’economia fino al 40% può finire all’estero. Quindi la resa degli investimenti è più alta.
(Lorenzo Torrisi)