Chiariamolo subito: a livello tecnico per l’Italia poco o nulla cambia. L’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato il passaggio da epidemia a pandemia, visto che l’infezione da coronavirus ha colpito 105 paesi su 180 e tutti i continenti tranne l’Antartide. L’Italia ha già emanato (come tutti ben sanno) misure straordinarie ed uniche in Europa, ora avrà un canale preferenziale sul materiale sanitario, come ricorda l’Oms, insieme a Corea del Sud ed Iran.
Più che tecnico lo shock (per i governi) è psicologico. L’ultima pandemia dichiarata – l’influenza suina – risaliva al 2009 e si concluse nel 2010. La differenza tra epidemia e pandemia non ha a che fare con la gravità di una malattia, è bene ricordarlo, ma con la sua diffusione geografica. A pandemia dichiarata i governi devono investire di più in sanità, vaccini e medicinali ad hoc (in Italia è in corso una sperimentazione molto interessante, e che pare efficace, di un farmaco atto a curare l’artrite reumatoide).
Inoltre l’approccio italiano è apprezzato dall’Oms, che definisce il nostro paese, per il metodo applicato, la Cina d’Europa.
Preoccupano le aree africane, parte dell’Asia ed il Sud America. L’Italia, a differenza d’altri, ha calcolato con trasparenza i contagi da coronavirus, senza trucchi, applicando i parametri Oms. A breve Roma sarà probabilmente modello per altre capitali; e lo Spallanzani è un’eccellenza mondiale che non tutti possiedono.
“Ci sono Paesi che non stanno facendo abbastanza per arginare il coronavirus” ha dichiarato l’Oms; noi non siamo e non saremo tra quelli. Abbiamo ad oggi 900 persone in terapia intensiva, il nostro sforzo immane non sarà più in solitudine.
L’Oms ha poi inviato l’Europa a supportare l’Italia, senza lasciarla sola: “la Cina ha avuto supporto di molti – ha aggiunto il direttore generale –. E ringraziamo la stessa Cina per aver dato priorità alla fornitura di dispositivi per Italia e Iran”. Una severa bacchettata alla Ue.
Nelle crisi economica uno dei problemi è il credit crunch, ovvero la restrizione delle disponibilità di finanziamento da parte delle banche a imprese e famiglie.
Questo aspetto è ancor più grave in Italia, perché (secondo un recente studio) l’approvvigionamento di capitali aziendali è per il 92% frutto di erogazioni bancarie e soltanto per l’8% di emissioni obbligazionarie; cioè molto poco.
Servono corporate bond italiani, come il pane. Si potrebbe arrivare ad una quota di mercato del 30% in tre anni, quindi sul medio periodo: un livello vicino al 30% della Gran Bretagna ed al 23% della Francia. Serve liquidità immediata e un fondo da miliardi per micro-partite Iva, oltre all’annullamento (non alla sospensione!) di bollette e rate, anno fiscale congelato con tre anni per rientrare ed accesso a liquidità oltre il rating.
(1 – continua)