Gli effetti del coronavirus stanno moltiplicando quelli che si intravedevano con la guerra commerciale americana verso la Cina. Lo sconvolgimento delle catene di produzione globale (la “supply chain disruption”) non è un effetto di breve periodo che si recupererà se e quando Cina e Stati Uniti faranno la pace commerciale o quando il coronavirus sarà un lontano ricordo. Quello che è successo e che sta succedendo è che le aziende non possono più permettersi di concentrare la produzione in Cina e come minimo devono diversificare per evitare di finire in mezzo a una guerra commerciale o per evitare che le “pandemie” blocchino completamente la produzione. Ci pare che il confronto tra Cina e Stati Uniti non sia destinato a rientrare e, anzi, tutto lascia pensare che sarà esattamente il contrario.
Qualche giorno fa diversi organi di stampa, prendiamo per esempio Reuters, hanno riportato la notizia che l’amministrazione Trump starebbe per invocare il “defense production act”; in vista del coronavirus e della dipendenza dalla Cina degli Stati Uniti per la fornitura di alcune produzioni chiave in campo medico, il Presidente potrebbe decidere di espandere la produzione negli Usa. Si parla di mascherine, guanti, tute, ma è abbastanza evidente che la legge potrebbe portare a un’espansione della capacità produttiva americana di un’ampia fascia di prodotti. Dal punto di vista economico significa che alcune fabbriche cinesi che oggi producono per esportare in America chiuderanno e che nuove fabbriche apriranno in America. Questa è la musica di sottofondo che sente chiunque provi ad approcciare il tema. Produzioni che lasciano il “nemico” e si spostano verso gli Stati Uniti e gli alleati.
La somma di dazi e pandemie genera flussi enormi che riguardano moltissimi prodotti dalla farmaceutica all’elettronica, dalla chimica di base (che finisce anche nelle medicine) alle componenti per la difesa, ecc. I cinesi, per chi se lo fosse perso, hanno una leadership tecnologica in molti settori strategici e d’avanguardia; la Cina non è più una collezione di braccia “ignoranti” che lavorano componenti di bassa qualità per l’industria “europea”. Potremmo citare tantissimi esempi, ma ne facciamo uno per tutti: il resto del mondo arranca per la tecnologia del futuro del 5g. Non c’è alcun Paese al mondo, grande o piccolo, che sia alla pari dei cinesi. La Cina è un concorrente che è in grande difficoltà economica e che difficilmente comprerà all’estero prodotti che ormai fa benissimo in casa.
In questo scenario immaginate la scena di un Governo, in teoria alleato, che cerca di intercettare questi flussi per sanare un’economia stagnante e in crisi sistemica, perché il modello “export based” è giusto un filo in crisi, che si presenta all’uscio degli americani con la firma della Via della seta e con il via libera al 5g cinese nei propri confini. Potremmo in effetti “allearci” con la Cina e sperare che gli americani si dimentichino del paio di basi che hanno in Italia e dei piccolissimi svantaggi che l’alleanza con una dittatura comunista tendenzialmente comporta. Questo cambiamento di paradigma potrebbe essere una grande opportunità per un Paese alleato, in una posizione geografica interessante e con il costo del lavoro sbriciolato; soprattutto per il sud Italia. Solo che bisogna capire in che mondo viviamo e farsi avanti con una legislazione e incentivi pro impresa.
Ancora in questi giorni si assiste a un inedito scontro interno in Italia sulla pericolosità o meno del 5g cinese. Non c’è mai limite al male che l’Italia riesce ad autoinfliggersi, inutilmente, come peraltro si è dimostrato in questi giorni con la gestione da fuori di testa della crisi da coronavirus. Ci mancherebbe che qualcuno con una spregiudicatezza da annali abbia persino pensato di cavalcarla per puntellare un Governo molto traballante. Il risultato comunque è sotto gli occhi di tutti. Oggi invece assistiamo a un cambiamento economico epocale senza accorgerci di cosa sta succedendo. Qualche titolo di borsa che non doveva scendere ma è sceso lo hanno visto tutti pagando il prezzo di un Governo allo sbando nei rapporti internazionali.