Caro direttore,
la Procura di Bergamo ha aperto un fascicolo giudiziario su quanto avvenuto negli ospedali della Val Seriana (per ora per ipotesi di epidemia colposa). Quella di Milano si è messa in moto sul Pio Albergo Trivulzio. Dopo 2.500 morti (ufficiali) nel cratere orobico e 600 stimati nella rete delle residenze regionali per anziani erano iniziative attese. E nessuno può mettere in discussione la doverosità dell’azione penale da parte della magistratura inquirente. Però in questa fase di eccezione – già punteggiata di forzature della democrazia costituzionale – non appare fuori luogo attivare qualche “alert”.
Sul Sussidiario abbiamo già segnalato come la Procura di Padova avesse acceso i fari già il 25 febbraio su Vò Euganeo e sull’ospedale di Schiavonia: luogo del primo decesso per il virus in Italia, nel day-2 dell’epidemia. Sei settimane dopo il Veneto è divenuto il principale focolaio globale di speranza, dopo l’adozione di successo della strategia del tamponamento a tappeto adottata su spinta del microbiologo Andrea Crisanti. Il presidente della Regione Veneto, il leghista Andrea Zaia, un mese fa sembrava sulla soglie del proverbiale “non può non essere colpevole”: oggi è una super-celebrity mediatica, apparentemente intoccabile – almeno per ora – anche per la magistratura più politicamente orientata.
Attilio Fontana, collega lombardo di Zaia, pure leghista, è invece nell’occhio del ciclone. Repubblica ha invocato addirittura in prima pagina contro di lui una nuova “Mani Pulite”, rammentando che Tangentopoli ebbe la sua origine proprio al Trivulzio 28 anni fa. E per indagare su una colpevolezza già mediaticamente conclamata della sanità lombarda sarebbe chiamato in campo Gherardo Colombo, colonna del pool dipietrista. In assenza di elementi puntuali e ovviamente nel rispetto del lavoro dei magistrati, sembra lecito porre alcuni interrogativi.
Perché gli inquirenti di Bergamo e Milano si muovono solo ora, a differenza della Procura di Padova (nonché di quella di Lodi sul caso Codogno)? Elementi sempre più convergenti dicono che il dramma della Val Seriana sarebbe cominciato all’inizio di febbraio, culminando poi nei gravi ritardi successivi alla dichiarazione di zona rossa: non solo in provincia di Bergamo, ma anche in quelle di Milano, Brescia, Cremona. Nella Lombardia orientale i sindaci Pd dei capoluoghi hanno dapprima puntato il dito contro gli ambienti economici assai più che contro la Regione. A Milano invece, è maturata la controffensiva politico-mediatica del sindaco Beppe Sala: che nei giorni critici di inizio marzo si attardava ancora nella campagna #milanononsiferma. E in quelle stesse giornate anche il governo Conte e la Protezione civile erano su posizioni attendiste: a valle delle polemiche di metà febbraio sulla richiesta dei governatori del Nord di barriere agli ingressi dalla Cina.
In quel momento aprire fascicoli sull’emergenza coronavirus sarebbe stato “politicamente scorretto”? Oggi invece è “penalmente doveroso”? Naturalmente – almeno così par di osservare – oggi viene messa nel mirino solo le sanità lombarda: lasciando fuori la Protezione civile, i protocolli via via emanati dal ministero della Salute, la stessa gestione dello stato d’emergenza che il governo di centrosinistra ha dichiarato fin dall’1 febbraio. I “pieni poteri” che il premier si è autoassegnato e di cui ha fatto poi larghissimo ricorso sono cominciati allora: e si sono estesi anche alle scelte decisive sui lockdown, anche quello della Val Seriana. Perché i dirigenti medici di Nembro e Alzano sono stati messi sotto inchiesta e il capo della Protezione civile no? Perché sul governatore della Lombardia sembrano allungarsi le prime ombre giudiziarie e sul premier no?
Per questo sembra lecito rivolgere un appello ennesimo al Presidente della Repubblica nella sue veste di presidente del Consiglio superiore della magistratura. Sulla “fase 2” giudiziaria dell’emergenza coronavirus – certamente doverosa – è vivamente auspicabile l’alta vigilanza costituzionale sull’autogoverno della magistratura.
PS: fra i tanti misteri dell’emergenza v’è quello che riguarda l’Emilia-Romagna. La regione delle Sardine e del governatore Stefano Bonaccini è la seconda più “rossa” in Italia dietro la Lombardia, con oltre 2mila decessi (il Veneto, scivolato ormai al quarto posto dentro il Piemonte, è sotto quota 400). Eppure l’oscuramento mediatico nazionale resta quasi totale. A Bologna e dintorni (soprattutto verso nord) non sembra esserci alcuna emergenza. Naturalmente, neppure giudiziaria.