Dopo due mesi di sospensione forzata, nei quali sono state garantite solo minime attività essenziali, anche il sistema giustizia vorrebbe ripartire, sulla scorta di una ri-organizzazione delle attività studiata nel periodo di forzata inattività.

In realtà, il perimetro normativo delineato nell’emergenza è (almeno sul punto) alquanto irrazionale e forse anche un po’ ipocrita. E infatti, si pretende di recuperare in poche settimane un gap tecnologico e culturale per il quale servono chiaramente un periodo molto più lungo e un’organizzazione ben più capillare. Per questo, consapevoli che il piano A è sostanzialmente irrealizzabile, le stesse norme emergenziali hanno già previsto una “via di fuga”, che consiste semplicemente nel rinviare tutta l’attività giudiziaria a dopo il 30 giugno, con sospensione dei termini di prescrizione dei reati. Con la speranza che il caldo, la fortuna e la scienza, insieme o ciascuna per parte sua, riescano a contenere gli effetti devastanti del virus.



Ovviamente non c’è nessuna categoria (non i politici, ma nemmeno i capi degli uffici giudiziari) disposta ad ammettere che lo scenario è questo e allora è partita un’operazione per distogliere l’attenzione da questo fallimento e spostare il dibattito su temi più suggestivi, meglio se resi ancora più incomprensibili dal ricorso a termini nuovi, eleganti, fascinosi, come la smaterializzazione del processo.



Gli approfondimenti condotti nei singoli settori hanno consentito di ipotizzare che il processo civile e amministrativo potrebbe ripartire “a distanza”, limitando la comparizione personale (o se si preferisce, il temuto assembramento) a una percentuale ridotta di casi. Tutto ciò è possibile perché quei riti sono sostanzialmente basati sullo scritto, ma soprattutto perché il processo civile telematico e il processo amministrativo telematico sono già operativi da alcuni anni e quindi esistono già le infrastrutture normative e tecnologiche di supporto. Beninteso, anche in questi settori sarà richiesto un enorme sforzo a tutti i soggetti processuali e certamente sarà necessario implementare le risorse economiche e umane, ma la fatica sembra meno proibitiva.



Non così per il processo penale, rispetto al quale vengono evidenziate molteplici criticità, che il legislatore stesso non ignora, tant’è che già nel decreto legge del 17 marzo aveva previsto la facoltà per i capi degli uffici giudiziari di adottare misure adeguate per contrastare l’emergenza epidemiologica, non ultima quella di prevedere il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020, con le solite eccezioni di urgenza.

Dal 9 marzo all’11 maggio sono stati rinviati d’ufficio migliaia di processi, nel migliore dei casi alla prima data utile (quindi, luglio), nei più estremi anche a molti mesi di distanza, per non dire ad anni (le date di rinvio sono pubblicate sui siti istituzionali e quindi questo controllo è agevole per chiunque). E non è difficile prevedere che i processi che, invece, verranno chiamati dal 12 maggio seguiranno la stessa sorte, essendo impossibile immaginarne la celebrazione a distanza per mancanza di norme processuali (non bastano due righe in un decreto legge per passare a un rito sostanzialmente nuovo e chi lo pensa o non sa di che parla, oppure è in mala fede), prima ancora che di tecnologia idonea.

Lo hanno già compreso i capi di alcuni uffici giudiziari, che hanno avuto il coraggio di fare da apripista, comunicando che anche dopo il 12 maggio i processi senza detenuti saranno rinviati (a tempi migliori) ed è fin troppo facile immaginare che nei prossimi giorni tanti altri li seguiranno, certificando la rovina di cui tutti gli addetti ai lavori erano perfettamente consapevoli già dal primo giorno di lockdown.

Nel frattempo, però, mancano ancora due settimane alla riapertura dei tribunali e non c’era occasione migliore in una quarantena divenuta intollerabile anche ai più pazienti e remissivi per lanciarsi accuse reciproche, che hanno l’unico scopo di individuare un capro espiatorio da additare all’opinione pubblica come unica causa della perdurante inattività della giustizia, in specie di quella penale.

Ma un nuovo processo “a distanza” non si crea né con le divisioni, né con fretta, che porta solo approssimazione, incertezza e prelude a future e più gravi perdite di tempo nelle singole cause. Se l’idea è quella di sfruttare l’emergenza per accelerare i tempi di un’epocale rivoluzione tecnologica, occorre animo sereno e soprattutto tempo, per consentire alle parti di confrontarsi su tante criticità e riuscire infine a scrivere regole chiare e condivise.

E nel frattempo che si fa? È inevitabile che si procederà in ordine sparso, con differenze locali che allungheranno ancora di più la nostra bella penisola, ma con l’unico obiettivo di contenere i danni (per quanto possibile) e attendere che l’emergenza si attenui. Ma questo, se si riflette un po’, è quello che accadrà in tutti i settori, pur se in ciascuno – non meno che per la giustizia – si continuerà a discutere della sfida epocale di immaginare dimensioni organizzative nuove, per convivere con il rischio epidemiologico.

Si proverà a implementare gli scambi telematici tra le parti processuali, per abbattere gli accessi fisici e le inutili attese. Per alcune di queste attività occorreranno comunque disposizioni normative per disciplinare la creazione e la conservazione degli atti c.d. nativi digitali e quindi non sarà facile e meno che mai veloce.

Ciò nonostante, i tribunali riapriranno, anche se con più disagi già agli ingressi (per rispettare le distanze e misurare la temperatura).

Le udienze saranno ridotte al minimo e a porte chiuse. La toga, forse, sarà sostituita da camici sterili e guanti e mascherine saranno obbligatori per tutti.

Occorrerà pazienza, anche più di quella dimostrata in questi ultimi due mesi, ma prima di tutto consapevolezza che non si potrà perdere ulteriore tempo, perché la chiamata dal futuro è arrivata in maniera tanto drammatica, quanto imprevedibile.

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