L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) è un’antica istituzione (fu fondata nel 1919 dopo la Grande Guerra), ora agenzia dell’Onu, alla quale aderiscono 187 Paesi. È quindi un osservatorio che dispone di una visione planetaria dei problemi del lavoro (l’Ocse raccoglie solo i Paesi più industrializzai, circa una trentina). In un recente documento (già definito work in progress in rapporto all’evoluzione della pandemia) l’Oil ha compiuto una “valutazione preliminare” in merito ai possibili impatti del Coronavirus sul mondo del lavoro e ha proposto una serie di politiche rivolte a mitigarne gli effetti e a facilitare un recupero il più sostenuto e rapido possibile.



La nota inizia con un’istantanea del contagio (purtroppo sappiamo che il dato è in crescita costante e per ora ininterrotta; quindi i numeri diventano ben presto superati). La pandemia ha già infettato 148 Paesi e ha il potenziale per raggiungere una grande quota della popolazione globale (alcune stime si spingono fino a un range tra il 40% e il 70%). La crisi si è già trasformata – l’analisi non è certo originale – in uno shock economico e del mercato del lavoro, con ripercussioni non solo sull’offerta (produzione di beni e servizi), ma anche sulla domanda (consumo e investimento).



Le interruzioni della produzione hanno avuto luogo inizialmente in Asia (i dati più recenti mostrano che il valore aggiunto totale delle imprese industriali in Cina è diminuito del 13,5% durante i primi due mesi del 2020). Tutte le aziende, indipendentemente dalle dimensioni, si sono trovate ad affrontare serie sfide, in particolare quelle dei settori del trasporto aereo, del turismo e in generale i lavoratori precari e temporanei. Le prospettive per l’economia, la quantità e la qualità dell’occupazione stanno peggiorando. Le stime iniziali dell’Oil indicano un aumento significativo della disoccupazione e della sottoccupazione già nel 2020 in conseguenza degli effetti del virus.



Il declino dell’attività economica e i vincoli ai movimenti delle persone stanno influenzando sia la produzione che i servizi. Le catene di approvvigionamento globali e regionali sono state interrotte. Il settore dei servizi, turismo, viaggi e la vendita al dettaglio sono stati particolarmente colpiti. Una valutazione iniziale da parte del Consiglio mondiale del commercio e del turismo ha previsto un calo degli arrivi internazionali fino al 25% nel 2020, il che comporterebbe milioni di posti di lavoro a rischio.

Come sempre accade quando si fanno delle stime, anche l’Oil prende a riferimento differenti scenari (il principale input è basato sulla durata della crisi sanitaria e su quando il Paesi e le Comunità internazionali potranno impegnarsi nella ripartenza). Le stime preliminari dell’Oil indicano un aumento della disoccupazione globale aggiuntiva rispetto al 2019 (quasi 200 milioni) compresa tra 5,3 milioni (scenario “basso”) e 24,7 milioni (scenario “alto”). Per fare un confronto, durante la crisi finanziaria globale del 2008-2009 la disoccupazione aumentò di 22 milioni. Anche la sottoccupazione dovrebbe aumentare su larga scala.

Lo shock alla domanda di lavoro si tradurrà probabilmente in significative riduzioni dei salari e orari di lavoro e in un’ulteriore sommersione di settori del lavoro autonomo. Le risposte politiche – secondo l’Oil – dovrebbero concentrarsi su due obiettivi immediati: misure di protezione della salute e sostegno economico sia dal lato della domanda che dell’offerta. In primo luogo, i lavoratori, i datori di lavoro e le loro famiglie dovrebbero essere protetti dai rischi di contagio; il che richiede sostegno e investimenti pubblici su larga scala. In secondo luogo, dovrebbero essere intrapresi sforzi politici tempestivi, su larga scala e coordinati, a sostegno dell’occupazione e del reddito e a stimolo dell’economia e della domanda di lavoro.

E l’Italia? Gli ultimi dati dell’Istat si riferiscono al mese di febbraio ovvero a prima del diluvio universale. In quel mese, la sostanziale stabilità dell’occupazione, a cui corrisponde un tasso di occupazione stabile al 58,9%, è il risultato dell’aumento lieve registrato tra le donne (+0,1%, pari a +12mila), i dipendenti a termine (+14mila) e, in misura più consistente, i giovani tra i 15 e i 24 anni (+35mila) e del calo tra gli uomini (-0,2% pari a -22mila), i dipendenti permanenti (-20mila), gli indipendenti (-4mila) e gli over35 (-44mila). Questo andamento sostanzialmente lineare – pur non brillante – è stato investito dallo tsunami.

Il Report del Centro Studi della Confindustria ha lanciato un messaggio drammatico. Se la quarantena dovesse durare fino a maggio, il Pil crollerebbe del 10% nella prima metà del 2020 e del 6% su base annua. Ogni mese di “fermo” in più costerebbe un ulteriore taglio dello 0,75% ovvero di 13 miliardi in più. Avvertiamo subito che si tratta di previsioni clementi, perché altri osservatori – soprattutto internazionali – sono molto più severi. In Italia, secondo le ultime rilevazioni del Csc, la caduta dell’attività stimata per marzo (-16,6%) rappresenterebbe il più ampio calo mensile da quando sono disponibili le serie storiche di produzione industriale (1960) e porterebbe i livelli su quelli di marzo 1978. Ed è in questo scenario – legato all’avvio, con successo, della fase 2 – che Itinerari previdenziali ha azzardato la previsione di 1,5 milioni di posti di lavoro a rischio.

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