Caro Direttore,

l’attuale contingenza storica, con le drammatiche esigenze emerse e che ormai sono sotto gli occhi di tutti, impone alcune riflessioni sull’idoneità del nostro sistema giuridico, per come si è delineato negli anni, ad affrontare in maniera puntuale ed efficace la repentina evoluzione della realtà.



Questa mia riflessione nasce dalla pratica professionale; nella nostra attività di consulenza giuslavoristica in ambito sanitario e socio-sanitario, infatti, ci siamo trovati spesso davanti a domande che non ammettono risposte ragionevolmente certe, come ad esempio quale sia il comportamento giusto da adottare nel caso in cui non si disponga, per oggettiva carenza, delle mascherine e dei DPI ottimali per svolgere in sicurezza le prestazioni sanitarie indispensabili.



A cosa occorre dare maggiore tutela giuridica? Alla salute del paziente o a quella del lavoratore?Questa domanda non sembra trovi soluzione nel diritto vivente, cosicché assistiamo a comportamenti eterogenei, dettati dalla creatività individuale, spesso caratterizzati da grande sacrificio e abnegazione (da parte degli operatori sanitari, ma anche dei datori di lavoro), nonché, talvolta, dalle (comprensibili) paure per la propria vita e per il proprio futuro.

Tutti i soggetti coinvolti stanno agendo sulla base di ciò che, in coscienza, ritengono giusto, consapevoli, tuttavia, che un giorno la propria condotta potrà essere giudicata sulla base del mito illuminista che pretende di trovare un colpevole per ogni disgrazia umana, come insegna il Prof. Antonio Vallebona nel suo manuale di diritto del lavoro (“Istituzioni di Diritto del Lavoro” edito da Cedam).



In questo contesto, ci troviamo davanti a un proliferare di norme e disposizioni attuative senza precedenti; è addirittura difficile conoscerle tutte anche per chi (come sta capitando a tanti professionisti) si occupa da settimane solo di questo argomento.

Ciò nonostante, il diritto positivo non riesce a offrire soluzioni concrete e ragionevoli a problemi come quello descritto.

Si ripropone il problema emerso con il caso Ilva, anche se in quella circostanza il contemperamento tra i differenti interessi non venne operato tra il diritto alla salute di uno e dell’altro, ma tra la salute e la tutela degli interessi economici.

È noto che l’ordinamento giuridico è completo per definizione e non ammette lacune, di modo che non possano verificarsi nella vita eventi non compiutamente disciplinati dalle norme giuridiche: infatti, una cosa o è vietata o è consentita. Ma in questa vicenda, quid juris?

Forse dovremmo tutti riprendere coscienza del fatto che il diritto positivo rinviene il proprio fondamento in principi generali – codificati nella Costituzione e nelle Convenzioni internazionali e, ancor prima, iscritti nelle coscienze individuali – che non sono avulsi dal sistema giuridico, ma che, anzi, ne costituiscono la necessaria base di ragionevolezza.

Si dovrebbero (forse) individuare strumenti giuridici, giurisdizionali e culturali capaci di rendere i suddetti principi, non solo meri enunciati programmatici, ma anche concrete regole di condotta idonee a orientare i comportamenti individuali.

Con riferimento al caso specifico, questo potrebbe avvenire, ad esempio, favorendo l’istituzione di tavoli decentrati di concertazione composti da tutti i soggetti coinvolti (imprese, parti sociali e istituzioni), autorizzati a declinare i suddetti principi, contemperandoli concretamente, con piena efficacia giuridica. Non sembra, di contro, che la tendenza legislativa degli ultimi decenni, orientata a disciplinare espressamente (e, purtroppo, talvolta in modo confuso) ogni possibile caso, abbia dato buona prova di sé.

Appare giunto il momento di trovare nuove vie, utilizzando tutta la creatività che il momento storico ci impone. Offro a lei e a tutti gli autori e lettori de IlSussidiario queste domande, sperando che possano costituire uno spunto per una riflessione.

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