La situazione di emergenza che sta interessando tutto il Nord Italia, accanto alle primarie conseguenze di natura sanitaria è contraddistinta anche dalle inevitabili conseguenze di natura economica e lavoristica. Per coloro che lavorano all’interno della cosiddetta zona rossa la situazione appare tanto più drammatica in termini sociali, quanto più chiara in termini giuslavoristici Questi, se costretti dai decreti prodotti dal Governo a sospendere le attività, potranno avvalersi della cassa integrazione guadagni quando prevista (industria ed edilizia) o dai trattamenti similari riconosciuti dai fondi di solidarietà bilaterali (artigianato) o dal Fondo d’Integrazione Salariale (Fis) dell’Inps.



Quindi, in sintesi, se l’azienda non può avvalersi della prestazione lavorativa e, quindi, il lavoratore non può svolgere le proprie attività, per la prima si sospende l’obbligo di retribuzione, per il secondo quello di adempimento. Inoltre, intervengono gli ammortizzatori sociali. Più preoccupante la situazione delle micro aziende (sotto i 5 dipendenti) che non possono avvalersi di alcuno degli strumenti sopra citati: per queste si aspetta un decreto del ministero del Lavoro che permetta l’accesso a misure di cassa in deroga e ne stanzi le risorse.



Per coloro che abitano e svolgono la propria attività fuori dalla zona rossa, ma comunque in zone oggetto di ordinanze pubbliche cautelative (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, ecc.), la situazione è più complessa. Il lavoratore non può non presentarsi sul posto di lavoro per il semplice timore di contagio, anche quando fondato: l’assenza deve essere comunque giustificata da un certificato medico, anche allorquando il lavoratore decidesse di mettersi in quarantena perché timoroso di essere ammalato. Da parte sua, il datore di lavoro, qualora decidesse di propria iniziativa di sospendere le attività, è comunque tenuto al riconoscimento dello stipendio ai suoi dipendenti. Nella pratica sta accadendo che si chieda ai lavoratori di usufruire dei permessi e delle ferie (solo parzialmente “forzabili”): è questa una soluzione poco lineare e svantaggiosa per il lavoratore.



La misura di prevenzione largamente più diffusa e discussa in questi giorni è certamente il lavoro agile, che molte aziende hanno iniziato a proporre alla maggioranza dei propri dipendenti. Invero non sarebbe così semplice attivare questa particolare modalità di esecuzione della prestazione lavorativa a distanza perché è obbligatorio sottostare a una serie di adempimenti previsti nella legge 81 del 2017 che ha introdotto e per la prima volta regolato questo istituto spesso impropriamente identificato con “smart working” (ben diverso dal più noto e risalente telelavoro). In questa particolarissima situazione, le aziende non hanno potuto (e non ne sarebbero state capaci) attivare le procedure previste dalla legge: per questo il Governo nel DPCM del 23 febbraio è intervenuto liberalizzando il lavoro agile. Si è trattato però di un intervento tecnicamente goffo, che ha avuto bisogno di essere riscritto nel DPCM del 25 febbraio. Oggi le aziende situate nelle regioni “a rischio” possono unilateralmente richiedere ai propri dipendenti l’esecuzione della prestazione lavorativa a distanza, dal domicilio del dipendente.

Non tutte le aziende e, soprattutto, non tutte le attività lavorative possono però essere svolte a distanza; si pensi alla produzione industriale, ai servizi pubblici o a tutte le mansioni che richiedono il rapporto diretto con la clientela. Cosa prevedere per questi lavoratori, esposti come gli altri al rischio del contagio? Come prolungare la sperimentazione del lavoro agile oltre il termine perentorio del 15 marzo stabilito dal decreto del Governo? Come mettere in campo misure dirette per l’assistenza sanitaria e le visite di controllo ai propri dipendenti? Tutto ciò che nessun decreto di urgenza ha il potere di imporre, può invece essere previsto in un accordo di responsabilità tra le parti sociali.

Sono diversi gli esempi del recente passato di azioni collettive in grado di accompagnare una ripresa economica sana e duratura dopo catastrofi e calamità naturali. Anche oggi sindacati e associazioni datoriali possono sfruttare gli ampi spazi della contrattazione collettiva nella regolazione delle flessibilità contrattuali, dell’elasticità oraria e del welfare per mettere in campo soluzioni creative e responsabili, di livello territoriale, anche regionale, in grado di attenuare l’inevitabile e rilevante impatto economico che il virus COVID-19 sta avendo suoi nostri distretti industriali più competitivi.

@EMassagli 

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