Pare che esista un luogo, non troppo lontano dalla fantasia, dove la mitica “Peste del 1348” abbia lamentato l’eccessiva attenzione per il piccolo “coronavirus”, vera e propria star di questo inizio decennio. La protesta sarebbe stata condivisa dalla “Peste di Atene”, da quella del Seicento narrata dal Manzoni, dal Colera, dalla Febbre Gialla, perfino dalla Rabbia e dalla stessa Sars. Tutti manifesterebbero l’evidente squilibrio comunicativo a favore di un piccolo virus che sta dando molte preoccupazioni, ma ben poche ragioni di vera emergenza.



Effettivamente questo ennesimo coronavirus racconta più lo stato di salute emotiva del pianeta che quello fisico o epidemiologico: perché basta un piccolo e pestifero “cosino”, pervenuto all’uomo in un mercato del pesce della Cina, a mettere in ginocchio governi ed economie di tutto il mondo.

In una sorta di percorso a ritroso, è giusto chiedersi come mai oggi possa accadere un fenomeno di tale portata per un fatto tutto sommato non troppo rilevante. La prima risposta che emerge, e che è giusto considerare, riguarda la fiducia: la diffusione della rete internet a partire dagli anni duemila non ha rafforzato i legami tra le persone, ma ha irrobustito i sospetti reciproci. Se non siamo mai stati sulla luna, se l’immigrazione è un piano di invasione islamica, se la terra è piatta e i vaccini causano l’autismo, come è possibile fidarsi dell’informazione ufficiale che chissà quale diabolico piano sta promuovendo in queste ore  per fregarci e raggiungere i suoi oscuri scopi mediante la nuova malattia?



Il venir meno della certezza morale che governa il mondo ci lascia non più liberi e riconoscenti verso coloro che contribuiscono alla nostra felicità con la loro conoscenza, ma ci riconsegna a noi stessi e alla società più arrabbiati e soli. Questa strana solitudine, che come una goccia d’acqua da un rubinetto che perde fa da rumore di sottofondo a tutta la nostra epoca, non nasce da chissà quali considerazioni filosofiche o psicoanalitiche, ma è la diretta conseguenza di un vuoto affettivo che ci renda certi che la vita sia un bene.

Non so quanti ragazzi, adolescenti e non, ma anche giovani e adulti, condividerebbero fino in fondo l’affermazione che essere nati è stata una cosa bella, un dono prezioso di cui essere contenti, un regalo fattoci per il nostro stesso bene. In tutte le letture post-positiviste dell’Occidente prevale sempre l’idea che l’uomo sia un male, che la sua vita sia una sfortunata realtà e che nessuno in fondo abita il mondo per uno scopo positivo, per un destino buono.



È la perdita della dimensione della fratellanza a renderci tutti così soli e così diffidenti. Non basta Greta Thunberg per convincerci che siamo tutti connessi: un uomo qualunque, un uomo o una donna del nostro tempo, la fratellanza la impara in un’esperienza di famiglia, in una comunità guidata dalla presenza di un padre. In alternativa la fraternité di rivoluzionaria memoria è una convenzione pronta a saltare al primo virus che si diffonde, alla prima Brexit che accade, al primo problema sociale che insorge e di cui occorre occuparsi, bilanciando con scrupolosa prudenza la difesa degli interessi di tutti e quelli del singolo, ritrovandosi sempre gli occhi addosso delle masse che non credono possa sul serio esserci qualcuno disposto ad agire per il bene.

Alla fine il punto è proprio questo: che potremmo perfino guarire dal Coronavirus, ma resteremmo sempre ammalati di un morbo letale che ci distrugge da dentro e che mette in dubbio che l’altro sia un bene per me. Così saltano matrimoni, imprese, opere, comunità, Chiese con papi regnanti e papi emeriti: nel terribile dinamismo che asseconda il tarlo della malafede e del secondo fine. Come se non esistesse altro, come se nessuno ci avesse promesso assistenza col Suo Spirito di Salvezza. Il sonno della ragione genera mostri, il sonno della fede diffonde, invece, letale violenza. Un virus talmente devastante che nemmeno Amazon ha disponibili le mitiche “mascherine protettive”.

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