Finalmente la Commissione europea, nel quadro dell’iniziativa “Coronavirus Response Investment Initiative”, il 13 febbraio scorso ha tolto lacci e laccioli alla spesa in due settori chiave per fronteggiare la situazione attuale: ha dato il via libera alla spesa sanitaria e ha in parte sburocratizzato il sistema di aiuti per le imprese e i cittadini. Le Regioni del Sud avrebbero così la possibilità di colmare il loro ritardo, procedendo autonomamente agli acquisti nel settore sanitario e pensando a misure specifiche per la ripresa economica, che, come più d’uno ha già affermato, deve affrontare anche sommerso e lavoro nero.



Le nuove regole europee, tra cui la nuova ammissibilità delle spese sanitarie, stabiliscono che le risorse non spese sulla programmazione in corso vengono rastrellate a livello centrale. Ovviamente non tutte le Regioni sono sullo stesso piano e quelle del Sud hanno maggiori residui, in virtù di dotazioni finanziarie più elevate ma anche a fronte di più bassi investimenti nazionali, cosa che ha dato origine al recente inserimento della clausola del 34%.



E invece cosa succede? Succede che sul tavolo dei presidenti delle Regioni è pervenuta una comunicazione del ministro in cui si chiede di riprogrammare le risorse a valere sul programma 2014-20, specificando che “l’eventuale maggiore contributo di risorse aggiuntive delle Regioni meridionali all’emergenza Coronavirus, (…) dovrebbe (attenzione: “dovrebbe”, non “deve”) essere oggetto di una successiva ‘compensazione intertemporale’, che avverrebbe attraverso un ristoro premiale di risorse dal Fondo di Sviluppo e Coesione per le suddette Regioni nel ciclo di programmazione 2021–27, da prevedersi nel prossimo Documento di Economia e Finanza e da definire nell’ambito della legge di Bilancio 2021”. In sostanza si tolgono oggi i soldi al Sud per darli al Nord, in cambio di una futura promessa di risarcimento.



Ma perché le Regioni del Sud, in pieno picco di contagi e davanti al dramma della miseria nera, dovrebbero rinunciare a programmare le proprie iniziative per cedere centralmente le loro risorse?

Certo, potrebbero avere convenienza a farlo se non avessero la capacità amministrativa necessaria a gestire le misure di emergenza. Però anche questo è un punto molto delicato. Le misure nazionali spesso hanno il limite di apparire lontane dai territori e dalle esigenze locali. E se le Regioni non hanno speso bene, certamente non ha fatto meglio lo Stato centrale.

Forse sarebbe opportuno, nell’ottica del federalismo democratico, lasciare libere le amministrazioni di aderire o meno a questo processo. Una soluzione potrebbe essere innanzitutto presentare un programma nazionale di misure, una sorta di “menù” al quale si può aderire o meno, cofinanziando singole misure con graduatorie riservate alle Regioni.

Fin qui la parte “tecnica” della questione. Ma vi è una parte più generale che nessuno ha il coraggio di affrontare in questa fase ma che in più di un’occasione è emersa drammaticamente in queste settimane. Ci riferiamo ad un rinascente conflitto tra il Nord e il Sud, una contrapposizione pesante, che non avvertivamo da anni e che ha fatto registrare più di un episodio.

A metà febbraio nella partita di calcio Brescia–Napoli, ad esempio, venne esposto uno striscione su cui era scritto “Napoli Coronavirus”, in assonanza con tanti striscioni che recitavano nel passato “Napoli colera”. Nessuno ne colse la gravità. Furono invece i tifosi del Napoli a replicare, pochi giorni dopo, durante un match casalingo con il Torino, esponendo uno striscione che recitava “Nelle tragedie non c’è rivalità, uniti contro il Covid-19”.

Ma la tensione è cresciuta purtroppo rapidamente, in particolare quando il Sud ha riaccolto tanti suoi emigrati in fuga la notte del 7 marzo, pur sapendo che si trattava di soggetti a rischio e che il sistema sanitario avrebbe potuto non reggere.

La rottura definitiva è arrivata con il “caso Ascierto”, il primario del Pascale di Napoli che, socializzando una scoperta cinese, ha per primo utilizzato il tocilizumab come cura efficace. Ascierto subisce in tv un attacco ingeneroso da parte del prof. Galli, primario del Sacco di Milano, al quale però risponde con pacatezza e signorilità. A Napoli questa cosa non è andata proprio giù.

Ascierto diventa ben presto un simbolo della città che resiste al coronavirus, pur senza i potenti mezzi della sanità lombarda; rappresenta tutti coloro che combattono con quello che hanno e non arretrano. Che sia ormai un simbolo di questa battaglia se ne è reso conto anche il giovane artista Jorit, che ha realizzato e messo all’asta un bel dipinto del volto del medico, cosa che aveva fatto in precedenza solo per San Gennaro e Maradona.

Sappiamo da una recente indagine di Gianfranco Viesti che, analizzando  gli investimenti pubblici nella sanità italiana dal 2000 al 2017, c’è stata una forte riduzione complessiva ma con crescenti disparità territoriali. In particolare l’economista ha riscontrato che le spese per investimenti nel settore sanitario al Sud nel decennio 2007-2017 sono fortemente penalizzate rispetto ad alcune Regioni del Nord e che tali ripartizione non hanno tenuto conto neanche della speranza di vita alla nascita, che al Sud è decisamente più bassa rispetto ad altre aree del Paese. “La spesa per investimenti in sanità in questi 18 anni è stata poi molto squilibrata territorialmente. Dei 47 miliardi totali, oltre 27,4 sono stati spesi nelle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno; in particolare in quest’ultima area, che nella media del periodo pesa per il 35% della popolazione italiana, gli investimenti sono stati pari al 17,9% del totale. In termini pro–capite, a fronte di una spesa nazionale media annua di 44,4 euro, quella nel Nord–Est è pari a 76,7 (cioè di ben tre quarti più alta), mentre quella nelle Isole è pari a 36,3 euro e nel Sud Continentale a 24,7: poco più della metà della media nazionale” conclude Viesti.

La clausola del 34% prevista nel Piano per il Sud intende ripristinare un principio molto semplice, che occorre cioè destinare al Mezzogiorno una fetta di investimenti ordinari pari alla popolazione residente, cosa che evidentemente non avviene da anni. Sappiamo anche che i fondi strutturali europei sono stati spesso sostitutivi e non aggiuntivi rispetto alle risorse nazionali.

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