Nelle scorse settimane, attraverso due contributi (il primo l’11 marzo e il secondo il 15 marzo) apparsi su questo giornale, abbiamo provato a capire come si sarebbe evoluta la richiesta di posti letto in terapia intensiva per il coronavirus. Questo contributo, invece, analizza i più recenti dati sia al fine di valutare se retrospettivamente l’approccio proposto si è rivelato efficace, sia le dinamiche empiriche dei dati aggiornati a ieri.
È opportuno ricordare che, differenziandoci dai metodi standard, abbiamo utilizzato un modello che consente di prevedere l’occupazione dei posti letto in terapia intensiva basandoci da un lato sull’evoluzione di questi ultimi, ma al contempo tenendo in considerazione il contestuale fabbisogno di ricoveri ospedalieri che questa epidemia continua a fagocitare.
I risultati del primo lavoro (con serie storiche molto “corte”) evidenziavano, in uno scenario preoccupante, una crescita che non si sarebbe arrestata entro pochi giorni. Nell’aggiornamento rilasciato il 15 marzo avevamo previsto un possibile rallentamento che si sarebbe dovuto osservare attorno alla fine della scorsa settimana (19-20 marzo).
Osservando a posteriori i precedenti contributi, possiamo osservare che la flessione attesa dei ricoveri in terapia che si sta verificando (ieri 23 marzo, per la precisione), pur nella drammaticità dei numeri che ogni giorno vengono comunicati, era stata colta, ma comunque sottostimata in termini di ordine di grandezza (o in altri termini, da noi anticipata di 4-5 giorni). A tal fine, segnaliamo che questo gap può essere in gran parte dovuto al fatto che la capacità di posti letto in terapia intensiva in Lombardia è passata dagli 842 posti letto (fonte ministeriale) dall’inizio del contagio, ai circa 1.400 a oggi (nella conferenza stampa del 24 marzo sono stati dichiarati 1.194 ricoverati).
Questo sforzo immane, ricordiamo, è stato profuso poiché, come emergeva dai drammatici appelli del presidente regionale (13-14 marzo), il sistema era arrivato a un punto critico, a una saturazione dei posti letto in terapia intensiva, nel pur encomiabile sforzo di aumentarne a capacità per fronteggiare questa epidemia. Per capire meglio quale sia stato l’impatto, si pensi che dal 2013 al 2017 il numero medio mensile di ricoveri in terapia intensiva era 680.
Il secondo aspetto di questo contributo, forse più interessante, analizza le recenti dinamiche (dati aggiornati al 24 marzo, circa 30 osservazioni, comunque pochissime) e illustra come, a nostro avviso, possa evolvere il fenomeno.
Innanzitutto, osserviamo che la forbice delle due serie (pazienti ricoverati con sintomi e pazienti trasferiti in terapia intensiva) ha continuato a crescere (con aumenti decisamente più alti in termini di crescita della prima), smettendo di seguire un trend condiviso (tecnicamente, cointegrazione). Il fatto che le due serie mostrino trend diversi (non-cointegrate, cosa che, i dati analizzati nei primi due contributi confermavano, invece), è tecnicamente l’aspetto più importante che suggerisce i corretti aggiustamenti al modello inizialmente proposto che possano tener conto di questo aspetto (come in seguito mostrato).
Di seguito riportiamo i risultati più importanti emersi con il c.d. modello “aggiustato”:
1) mentre nei due primi lavori le serie del numero assoluto (conteggi) mostravano andamenti simili, pur in crescita, con i nuovi dati tale andamento parallelo lo si vede, invece, nelle variazioni percentuali giornaliere (incrementi tra due giorni consecutivi), a significare che sebbene i ricoverati crescano più velocemente delle terapie intensive nei conteggi, gli incrementi tra un giorno e quello precedente di queste due serie seguono lo stesso trend. Fortunatamente questo trend è in discesa (Figura 1: serie in logaritmo naturale)
2) Il modello, specificato per analizzare e prevedere nel tempo ambo le serie, suggerisce che le variazioni intra-day dei pazienti in terapia intensiva dipendono fortemente (significatività) dai suoi valori di uno e due giorni prima e dalla variazioni dei ricoverati con sola sintomatologia, e in particolare di quello che avviene tre giorni prima: di fatto l’incremento percentuale di pazienti che accedono in terapia intensiva è spiegato bene dall’incremento di pazienti ricoverati per Covid-19 tre giorni prima.
Questa informazione (definita elasticità) quantifica, a livello di ospedale, il grado di “aggravamento” e, a livello di sistema regionale, quello di sovraccarico di strutture di terapia intensiva a seguito di un peggioramento della malattia entro tre giorni.
L’elasticità stimata (0.32), fortunatamente inferiore a 1, illustra che gli incrementi giornalieri in terapia crescono meno che proporzionalmente degli incrementi dei ricoverati, tre giorni prima.
In figura 2 mostriamo come il modello attuale si adatti bene ai dati (storici) e cosa preveda in termini di evoluzione nei prossimi 5 giorni.
La figura riporta le dinamiche di crescita dei ricoveri in terapia intensiva (blu) e la previsione ottenuta dal modello (rosso). Inoltre, abbiamo aggiunto una linea verticale che separa a sinistra i dati fino a oggi e a destra ciò che il modello prevede per i prossimi 5 giorni. Le due linee orizzontali rappresentano la capacità dei posti letto in terapia intensiva prima e dopo l’epidemia di Covid-19. Il risultato del modello conferma che ci troviamo nella fase peggiore, ma se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno non ci aspettiamo ulteriori incrementi nella richiesta di posti letto in terapia intensiva, anzi fra qualche giorno l’emergenza dovrebbe calmierarsi. L’unica cosa che il modello non può controllare è l’esplosione di ulteriori focolai.
Una nota finale a questo aggiornamento è doverosa. Sabato 21 marzo su queste colonne è apparsa un’illuminante intervista alla Prof.ssa Mirella Pontello, specialista in Igiene e medicina preventiva e in Microbiologia. La Prof.ssa Pontello ci ammonisce a prendere con le pinze i dati perché danno solo un’idea dell’ordine di grandezza del fenomeno o parte di questo. Infatti, ricorda la Prof.ssa Pontello, “ci si limita a eseguire il test solo se i sintomi sono di un certo rilievo. […] cioè i campioni vengono raccolti quasi esclusivamente da soggetti con una situazione clinica già fortemente indicativa di infezione da coronavirus”.
Allora forse, quando questa emergenza sarà passata e si potrà avere maggiore lucidità nel ragionare su ciò che stiamo vivendo, bisognerà spendere del tempo anche a ragionare sul ruolo dei dati in queste settimane. Per molto, troppo tempo, siamo stati bombardati dall’idea che era giunta l’era dei dati che, quasi per magia, avrebbero consentito di conoscere e prevedere qualsivoglia fenomeno. Questa convinzione, in realtà, era un ben noto adagio, usato come sfottò per noi statistici: “Torturate abbastanza i dati e prima o poi vi diranno quello che volete”.
Ma chi si occupa di ricerca sa bene come le potenzialità, non certo divinatorie come qualcuno vuole far credere, che i dati custodiscono si scontrano con una delirante interpretazione della normativa sulla privacy. Se si vuole che la ricerca, accademica e non, si possa esprimere liberamente e crescere come un fiore all’occhiello di questo Paese, è forse giunta l’ora di condividere in modo semplice, sicuro, anonimizzato e proficuo l’enorme patrimonio informativo di cui dispone la Pubblica amministrazione. Le modalità per consentire un accesso sicuro – nel pieno rispetto dei requisiti posti dal Gdpr – ai dati amministrativi (sanitari e non) a fini di ricerca esistono e sono da anni già realtà consolidata in molti Paesi europei – per lo più del nord Europa – come l’Olanda, la Danimarca, la Svezia e la Finlandia e non europei (la Nuova Zelanda per fare un altro esempio di eccellenza in merito). Che le uniche informazioni aggregate sulle caratteristiche dei pazienti deceduti per Covid-19 siano fornite in un report (in formato pdf) dall’Istituto Superiore di Sanità a partire da alcune analisi descrittive su un campione (rappresentativo si spera) dei dati quando il patrimonio di microdati individuali di quei decessi sono disponibili nei dati amministrativi regionali e potrebbero essere messi a disposizione della comunità scientifica (mediante accesso sicuro) è un non-sense solo italiano che ancora oggi non riusciamo in alcun modo a spiegarci.
Solo quando le pastoie imposte da queste interpretazioni poco lungimiranti delle norme (riassumibili nel motto “chi non fa non sbaglia”) saranno eliminate, allora forse la ricerca diventerà sempre più un servizio per la collettività che in modo sussidiario può portare conoscenza ai policy maker consentendo loro di decidere con maggiore consapevolezza per il bene della collettività.