Secondo una delle teorie oggi circolanti sull’origine del coronavirus, ci sarebbero gli Stati Uniti dietro la diffusione dell’epidemia in grado di piegare il principale concorrente nella leadership globale. Pare piuttosto strano, però, che Washington passi da un’operazione “chirurgica” come l’eliminazione di Soleimani priva di tangibili conseguenze a una che invece ha non pochi effetti collaterali per la propria economia.



È noto infatti che un gigante come Amazon ha nei propri magazzini molta merce proveniente dalla Cina che presto comincerà a scarseggiare. Ed è difficile pensare che la società di Jeff Bezos possa continuare a macinare utili nei prossimi mesi tornando alle origini, vendendo libri al posto dei tanti prodotti elettronici e non made in China. Apple dal canto suo ha appena fatto “outing” dichiarando che non riuscirà a produrre, e quindi vendere, tutti gli iPhone previsti a causa del blocco della produzione e delle minori vendite in Cina.



Per quanto Donald Trump non ami l’editore del Washington Post e i big della Silicon Valley californiana e democratica sa bene che dalla salute dei cosiddetti Faang, i big tech americani, dipende anche la sua corsa per la rielezione alla Casa Bianca. Anche perché, come è stato più volte sottolineato, sarà anche dall’andamento di Wall Street che dipenderà l’esito delle presidenziali di novembre. Non a caso il presidente americano, al recente World Economic Forum di Davos, ha messo in guardia gli “alleati” europei dall’introdurre strumenti come la web tax che rischierebbero di penalizzare proprio i giganti americani come Facebook, Amazon, Google, Netflix & Co. Pena, l’introduzione di dazi sulle merci Ue.



Quale che ne sia la causa, purtroppo con le conseguenze del coronavirus occorre già fare i conti. Non solo in Cina e negli Stati Uniti. Se infatti i nuovi iPhone non vengono distribuiti in Europa ad andare in crisi è anche il mondo dei servizi collegati a questi prodotti. Ci sono aziende in Italia che vivono grazie anche ad accordi di esclusiva basati su numeri garantiti e commissioni. È chiaro che rischiano di saltare i budget dell’anno appena iniziato e con loro anche dei posti di lavoro. Qualcosa di analogo potrebbe succedere anche nel mondo dell’automotive, leggi concessionari, visto che si è parlato di fermo di stabilimenti in Europa causa mancanza di componentistica cinese.

Di tutto questo non pare forse esserci abbastanza percezione nel dibattito pubblico e mediatico, forse perché il blocco della “fabbrica del mondo” non ha ancora fatto sentire concretamente i suoi effetti. Compresi quelli sull’export di Paesi europei, Germania e Italia in primis. Se intanto il Governo spagnolo annuncia l’introduzione di una web tax del 3%, non stupiamoci se arriverà anche la risposta promessa da Trump via dazi. A quel punto delle magnifiche sorti e progressive del modello mercantilista su cui l’Europa ha cercato di fare la sua fortuna resteranno solo cocci rotti. Magari sarà la volta buona che ci si accorgerà di quel virus tutto europeo che da tempo falcidia Pil e lavoro. E che a Bruxelles, come si vede dalle ultime discussioni su investimenti e bilancio, ci si ostina a non curare.

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