Dopo il calo del giorno precedente, tornano a salire i contagiati da coronavirus: 2.989 in più, il picco più alto dall’inizio dell’epidemia, che ha portato il totale a quota 31.506. Il numero dei casi positivi sale a 26.062, cui vanno aggiunti i 2.503 decessi, con un incremento di 345 rispetto a lunedì, e i 2.941 pazienti guariti (+192). Sono gli ultimi aggiornamenti forniti da Angelo Borrelli nell’abituale conferenza stampa della Protezione Civile sul Covid-19 in Italia. Dei contagiati, 11.108 sono in isolamento domiciliare con sintomi e 2.060 (“sempre il 10% del totale”) in terapia intensiva. Cosa ci dicono gli ultimi dati? E come va interpretato il balzo di ieri dopo la frenata di lunedì? “Siamo ancora in una fase espansiva – commenta il virologo Fabrizio Pregliasco – in cui il trend cresce. Dobbiamo ancora stringere i denti e aspettare la prossima settimana. Il dato è ondivago perché la notifica dei casi avviene non ancora in modo allineato: dobbiamo aspettarci degli alti e bassi ancora per qualche giorno”.



La Lombardia resta l’epicentro più grave dell’epidemia. Qui il ceppo uccide otto volte di più che nel resto del Paese. Secondo alcuni dipende dal fatto che il virus ha subìto già tre mutazioni, secondo altri per un sovraccarico degli ospedali. Lei che idea si è fatto?

Quello che so, rispetto agli isolamenti e alle sequenze del virus, è che finora si è registrata una stabilità. Il ceppo isolato a Milano è allineato con quello isolato a Roma o in Cina. Di sicuro posso dire che abbiamo una sottostima dei dati reali, perché c’è una quota parte di soggetti asintomatici, visto che ora i tamponi vengono effettuati solo su soggetti con febbre e necessità di ricovero.



Secondo la fondazione Gimbe, infatti, “gravità e tasso di letalità sono ampiamente sovrastimati perché ci sono almeno 100mila casi di contagio da coronavirus, di cui 70mila non identificati”. E uno studio inglese osserva che per ogni caso confermato ce ne sono 5-10 ignoti. La soluzione per scovarli è fare uno screening di massa, tamponi a tappeto come ha detto di voler fare in Veneto il governatore Zaia?

A mio avviso siamo entrati in una fase 3. All’inizio, abbiamo fatto tamponi a tutti, quando ancora si contavano pochi casi. A Vo’ sono riusciti a farlo ma proprio perché era un piccolo paese. Poi siamo entrati in una fase di diffusione più elevata, almeno in Lombardia, effettuando tamponi solo ai fini di un’attenzione a chi si deve portare in ospedale per avere sotto controllo il paziente. Ora, a livello territoriale, indagini epidemiologiche ben vengano per avere un’immagine più nitida e precisa dell’insieme e delle situazioni collegate per cercare di ridurre e mitigare la diffusione: se si riescono a individuare il 70% dei contatti di un caso indice si può spegnere un nuovo focolaio.



Intanto il paziente 1 di Torino, giudicato guarito, è tornato positivo ed è stato rimesso in isolamento. Dobbiamo temere le recidive?

Non è ancora chiaro, in questo caso, se si tratti di un andamento unico con magari una negativizzazione e poi una ricaduta. Più che di recidiva parlerei di un continuum.

L’Oms ha lanciato l’allarme: Questa è una malattia grave. Anche se le prove che abbiamo suggeriscono che gli over 60 sono a maggior rischio, sono morti anche giovani, compresi i bambini”. In Italia arrivano segnalazioni, anche dai reparti di terapia intensiva, di casi positivi nelle fasce più giovani. All’inizio si diceva che erano più resistenti al virus. Adesso perché vengono colpiti?

No, non è che sono più resistenti. Si vedono, facendo i tamponi, casi positivi e asintomatici nei bambini e nei soggetti giovani, che ovviamente hanno meno sintomatologie degli anziani.

Si dice che più un virus si diffonde, più perde un po’ della sua aggressività…

Non siamo ancora a livelli di diffusione tale da provocare questo effetto, probabilmente ci sarà una seconda ondata. In genere le pandemie hanno più di un’ondata.

E quando dobbiamo aspettarcela?

Potrebbe arrivare il prossimo autunno, quando torneranno le condizioni più favorevoli per la diffusione di un virus. La prima ondata avanza a strascico, chi prende prende; la seconda è più selettiva e va a colpire chi ha schivato quella precedente.

In vista di questa seconda ondata, diventa importante la corsa alle cure. L’Aifa ha annunciato di aver dato l’autorizzazione per l’utilizzo del farmaco anti-artrite contro il Covid-19 su più di 300 persone. E’ un segnale incoraggiante?

Si stanno già utilizzando tentativamente sperimentazioni in diversi ospedali italiani con terapie compassionevoli o fuori etichetta, come si dice in gergo. Tocca però all’Aifa strutturarle e validarle su numeri più ampi e su diverse tipologie di pazienti.

In diversi paesi sono in fase avanzata studi su cure e vaccini e a Seattle sta per partire una sperimentazione su 45 volontari giovani e sani. Potremmo arrivare a una cura, a un vaccino prima dell’autunno?

Cure e vaccini sono due cose diverse, ma in entrambi i casi ci vuole tempo: per arrivare a una stabilizzazione di un farmaco già disponibile e utilizzabile occorrerà almeno un anno, mentre per un vaccino anche di più, un anno e mezzo-due, perché bisogna fare le sperimentazioni, verificare che funzioni, che sia sicuro. Non si possono vaccinare milioni di persone sulla base solo di prime prove o di ipotesi.

 (Marco Biscella)

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