Solo 880 nuovi contagiati da coronavirus, il numero più basso dal 10 marzo, meno della metà di quello registrato il giorno precedente. Aumentano anche le persone guarite (+1.555) e calano di 106 i pazienti ricoverati in terapia intensiva. Su livelli ancora elevati restano purtroppo i decessi (+604). Intanto dal Policlinico San Matteo di Pavia giunge la notizia che la società biomedicale italiana Diasorin ha completato gli studi necessari al lancio di un nuovo test sierologico ad alto volume di processamento per rilevare la presenza di anticorpi nei pazienti infettati dal Sars-CoV-2, in grado di rispondere all’esigenza di individuare nella popolazione i soggetti che sono già stati infettati dal virus. Un test sierologico, commenta il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, “molto affidabile”. Entro la fine di aprile DiaSorin punta a ottenere la certificazione CE e l’autorizzazione all’uso di emergenza (Eua) della Food and Drug Administration, dopodiché dovrebbero partire i test sulla popolazione. Il calo dei contagiati e la notizia di nuovi test sierologici per mappare la reale diffusione del Covid-19 potrebbero avvicinare l’avvio della cosiddetta fase 2? Con quali precauzioni? E con quali possibili rischi? Lo abbiamo chiesto al virologo Fabrizio Pregliasco dell’Università degli Studi di Milano.
È in arrivo un nuovo test sierologico per la “patente di immunità”, che aiuterà anche a individuare gli asintomatici. È una buona notizia oppure, come consiglia l’Istituto superiore di sanità, è una pratica da prendere con cautela?
Il test sierologico è un elemento importante, ma in sé è una pratica che ha un margine di errore, presenta dei rischi soprattutto sui falsi positivi. Non è poi così immediata la concessione di una “patente di immunità”, anche perché in caso di positività occorre effettuare il tampone per verificare la presenza del virus. Il test sierologico è più sicuro nello scovare i casi negativi, e quindi le persone ancora suscettibili.
La “patente di immunità” può essere condizione preliminare per far partire la fase 2?
Assolutamente no. Può tutt’al più essere una componente complementare che potrà servire per monitorare la situazione. E una fase 2 dovrà iniziare nel breve.
Quando potrebbe scattare?
I modelli matematici ci dicono che arriveremo a un livello non zero, ma di incidenza non rilevante. Per esempio, con 50-100 casi al giorno.
A quel punto?
La politica sarà chiamata a una scelta “crudele”, ma necessaria, perché prolungando troppo il lockdown potremmo arrivare a un disastro economico e sociale, con pesantissimi effetti collaterali.
Prevarranno le curve epidemiologiche o la necessità di non far morire l’economia?
Noi scienziati possiamo dare dei livelli e dire che se si va avanti per un lungo periodo si potrà arrivare a zero nuovi casi. Oppure arrivare, appunto, a un numero esiguo di casi e decidere di assumere un rischio calcolato, in una prospettiva di costi-benefici più ampia e complessiva. Se i contagi sono pochi, sarà più facile gestirli. Adesso non si può fare il tampone a tutti, ma con pochi casi al giorno, tutti individuati, si può fare tranquillamente, andando a controllare anche i contatti.
Quali condizioni servono per poter avviare una fase 2?
Essere, appunto, in presenza di casi considerati accettabili per poter governare meglio sia chi si troverà nelle fasi iniziali della malattia, sia chi avrà patologie più gravi, visto che rianimazioni e terapie intensive non saranno più in affannosa carenza di posti letto e in piena emergenza. E poi bisognerà continuare ad adottare le misure di distanziamento sociale e un’organizzazione della vita e del lavoro che tenga conto del rischio coronavirus, con cui dovremo convivere ancora per un bel po’.
Lei ha parlato di ripresa “graduale, scaglionata e flessibile”. Che cosa significa in concreto?
È impossibile pensare di riaprire tutto subito come se non fosse successo niente. La flessibilità è importante, perché potrebbe rendersi necessario richiudere la fase 2. Con le misure di mitigazione abbiamo finora evitato che altre persone si ammalassero, ma questo vuol dire che rimarranno sacche di soggetti ancora suscettibili. E se non faremo le cose per bene, potrebbero essere loro a riaccendere nuovi focolai, anche importanti.
Si dice però che il 15 aprile qualcosa potrebbe aprire. Secondo lei, da dove si può iniziare?
Dalle attività produttive necessarie, come alcune catene agroalimentari che non stanno funzionando del tutto.
L’attuale situazione dei contagi al Nord, cuore produttivo del paese, che cosa consiglia di fare?
L’evoluzione dell’epidemia migliora. Anche in Lombardia si può partire dai settori industriali e dai servizi, ovviamente nel rispetto delle precauzioni e della sicurezza da adottare sui luoghi di lavoro. Le attività di socializzazione sono invece meno urgenti. E quindi le discoteche, per citare un esempio, non penso che riapriranno tanto presto. Al momento comunque abbiamo davanti due “rischi” terribili: Pasquetta e il ponte del 25 aprile-1° maggio. Bisognerà aspettare dopo quella data.
Quando scatterà la fase 2 quali rischi dobbiamo evitare? Dobbiamo aspettarci piccoli o grandi focolai?
Possono anche diventare grandi focolai se non terremo la guardia alta e se commetteremo degli errori.
Cambieremo abitudini?
Certo. Utilizzeremo le mascherine, manterremo il distanziamento sociale, dovremo evitare gli assembramenti e gli spostamenti da una Regione all’altra.
(Marco Biscella)