Rallenta un po’ la velocità della curva di crescita, ma vi sono altri 280 casi di positività al Covid-19 in Veneto, compreso anche uno a Vo’, per molti giorni rimasto a zero. Il “bollettino di guerra” da inizio epidemia parla di 7.930 contagiati, 362 decessi (20 in più rispetto al report precedente), 344 pazienti in terapia intensiva (+7) e 20mila persone in isolamento domiciliare. “La prossima settimana avremo le ‘turbolenze in volo’ rispetto al nostro percorso nel contrasto al Coronavirus, sappiamo che atterreremo, che faremo arrivare questo volo a destinazione, ma vi dico che la prossima settimana sarà una delle peggiori.
È fondamentale osservare quali saranno i dati. Per questo prego tutti i cittadini: state tutti a casa questo weekend, perché ci permetterà di capire come evolve la situazione”.
Lo ha detto il governatore del Veneto, Luca Zaia, nel consueto punto stampa dalla Protezione civile, aggiungendo: “Il modello matematico ci dice che per noi sarà la settimana determinante, ci darà la direzione del contagio e dell’andamento del virus”. Sarà davvero la settimana decisiva? E perché? “Ha ragione Zaia – risponde Giorgio Palù, virologo dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia – perché il tasso di incremento dei nuovi casi, l’indice R0, è in fase discendente e nei prossimi giorni sarà importante vedere se verrà confermato questo calo: perciò la prossima settimana sarà decisiva per verificare se l’indice R0, che all’inizio in Veneto era pari a 3 e oggi è intorno a 2, continuerà a scendere: una volta calato sotto 1, avremo la prova che l’infezione si estinguerà”.
Ieri, però, un nuovo contagio a Vo’ e il giorno prima nuovi casi positivi a Codogno. È stato un errore riaprire le zone rosse?
La diffusione del virus non è omogenea nel paese, ci sono contagi per contiguità e contagi di ritorno, quindi se si riapre la zona è chiaro che ritornano i casi positivi. Dobbiamo stare attenti a mantenere in maniera rigida, severa, rigorosa le indicazioni di distanziamento sociale e isolamento in casa. E questo lo deve fare soprattutto il Sud. In Italia non abbiamo utilizzato le “cinture di sicurezza” come la Cina, che ha messo in quarantena 60 milioni di persone in tutta la regione dell’Hubei, mentre l’altro miliardo e mezzo di cinesi continuava a lavorare e a tenere in piedi l’economia. Noi non abbiamo potuto farlo. Abbiamo assunto altre misure. I mezzi pubblici viaggiano, i treni viaggiano…
L’unica misura efficace resta dunque identificare con precisione i cluster, isolarli, imporre il confinamento in casa e il lockdown totale?
Lo era all’inizio.
E adesso?
Con l’infezione ormai così diffusa è difficile, cosa facciamo, mettiamo in lockdown tutta l’Italia, chiudendo i confini? Non credo che siamo in grado di prendere questa misura.
In Lombardia desta preoccupazione il caso di Milano, considerata una bomba biologica da non far deflagrare. I contagi però sono in aumento: come si può mettere in sicurezza una grande città densamente popolata e molto dinamica?
L’importante è misurare il tasso di crescita, come si muove la linea dei nuovi contagiati, qual è la velocità di acquisizione di nuovi casi positivi.
Cioè bisogna valutare il parametro R0, che misura l’indice riproduttivo del virus? Oggi a che punto siamo?
L’indice R0 ci rivela la capacità di un soggetto positivo infettato dal virus di contagiare altre persone in tutto il periodo in cui l’infezione è attiva nel suo organismo. I dati però ci stanno dicendo che questo tasso, che prima era intorno a 2,5-3, sta diminuendo, intorno a 2, che è comunque ancora un valore alto, però si sta muovendo come una macchina che va in salita, a velocità decrescente. Quindi non dovremmo più assistere a curve con andamento esponenziale o lineare, ma che deflettono. Ed è quello che sta avvenendo in Lombardia, che per prima ha adottato le precauzioni, ma resta una Regione molto grande, difficile da controllare. E Milano sarà ancora più difficile: è una città con tanti palazzi, condomini e un intenso viavai, molto più che un paesino come Vo’.
In Veneto si parla di allarme minori, perché risultano 132 tra neonati, bambini e adolescenti ricoverati positivi. Non si diceva che il Covid-19 si accanisce sugli anziani ma non sui più giovani?
Ma i minori colpiti sono meno del 2%. Era così anche nell’Hubei, dove su 80mila positivi i bambini positivi erano solo qualche centinaio. E sempre in Cina tutti i neonati positivi si sono tutti risolti e la mortalità sotto i 10 anni è pari a zero. Non bisogna guardare solo i numeri assoluti, ma anche i numeri relativi, il denominatore, considerando il totale dei positivi e quanti tamponi sono stati eseguiti. E poi consideriamo che i bambini tra zero e 10 anni sono plurivaccinati e più vaccini, pur non difendendoli specificamente dal Covid-19, fortificano la risposta immunitaria.
Gli asintomatici hanno giocato un ruolo moltiplicatore dei contagi. Si può sciogliere questo nodo?
Il primo studio che dovremmo fare, come ho suggerito alla Regione Veneto, è quello di sieroprevalenza. Dai dati cinesi sappiamo che possiamo avere tra il 60% e l’80% di paucisintomatici o asintomatici. Ma noi in Italia questo dato non l’abbiamo.
Come possiamo ottenerlo?
Bisognerebbe studiare qual è la risposta anticorpale al virus in strati abbastanza estesi della popolazione. Solo così potremmo dire quante persone sono venute in contatto con il Covid-19 e quindi stabilire qual è la prevalenza all’infezione. Come l’influenza all’8-10%? Meno dell’influenza al 3%? O più dell’influenza? Questo è fondamentale.
Perché?
Perché ci può dire realmente quanti sono gli asintomatici, cioè quanti hanno incontrato il virus senza contrarre alcuna malattia o manifestando pochi sintomi. Ma soprattutto ci potrà dire cosa succederà quando se ne andrà questa epidemia, quando probabilmente, come in tutte le pandemie, si verificherà l’ondata dei contagi di rientro, visto che lo sviluppo dei focolai in vari continenti è come sempre asincrono.
In Italia quando finirà tutto, quando l’epidemia se ne andrà?
Per un virologo è impossibile rispondere. Però ho guardato varie proiezioni elaborate da matematici, statistici o informatici, che finora non ci hanno azzeccato. Utilizzano diversi sistemi di misurazione per 5 compartimenti.
Che cosa significa?
Misurano vari strati di popolazione: i suscettibili, gli infetti, i malati, i decessi, i guariti. Ciascun compartimento ha la sua proiezione, ma la cosa è un po’ più complessa. Per esempio, questo virus ha un tempo di contagiosità più lungo di quello che pensiamo. Prima non si poteva applicare la curva che si è vista in Cina, l’andamento gaussiano dei casi incidenti con il plateau e la discesa fino alla scomparsa dei positivi. Dal giorno in cui hanno denunciato la presenza dell’infezione tutto si è risolto in 100 giorni. Non credo possiamo trasportare quel modello perché noi non abbiamo usato le loro misure draconiane. Però adesso la curva sta deflettendo, quindi si può fare un calcolo probabilistico su quando tutto questo finirà.
C’è chi prevede metà aprile. Sarà così?
Sarei più cauto.
Come si può spiegare la virulenza dell’epidemia in Spagna, che tanto ricorda quel che sta drammaticamente accadendo nelle province di Bergamo e Brescia e rischia di accadere in Piemonte, in Emilia, forse al Sud…
Le ipotesi sono tre. La prima: che il virus sia geneticamente modificato. Ma al momento questa ipotesi non è suffragata dai pochi dati che abbiamo di sequenza. È lo stesso virus che circola, è costante, muta molto poco, da sette a dieci volte meno di quello dell’influenza e di tanti altri virus Rna.
La seconda possibilità?
Può esserci una diversa suscettibilità individuale, che può dipendere in larga misura dal recettore, l’Ace-2. Ma la popolazione caucasica, cioè noi europei in generale, è così “mescolata” che anche questa ipotesi non può reggere.
Non resta allora che la terza ipotesi…
Suffragata dagli stessi medici lombardi, questa ipotesi vale per la Lombardia, che a differenza del Veneto e dell’Emilia-Romagna presenta tassi di ricovero ospedaliero molto elevati: siamo al 68%. Per cinque ragioni: la Lombardia non ha presidi territoriali come il Veneto; i medici di medicina generale non hanno effettuato screening sugli ammalati, che sono stati tenuti in casa; non ha politiche di public health come il Veneto; ha ricoverato tutti quelli che passavano dal pronto soccorso; ha trattato questa infezione come fosse un problema clinico, mentre questa epidemia è un problema di sanità pubblica. La gente andava tenuta lontano dagli ospedali, visto che oggi il 20% del personale sanitario risulta positivo. Non si è capita la lezione della Sars nel 2002.
Quale lezione?
Il Covid-19 è un virus super spreader, super contagiante, e tipicamente nosocomiale. Quando la Sars è arrivata da Hong Kong a Toronto, quel solo paziente ha infettato mezzo ospedale.
Il 17 marzo è stato somministrato negli Usa a volontari il primo vaccino anti-Covid. Quando potremo avere il vaccino disponibile su larga scala?
Dopo soli sette giorni, con la sequenza del genoma depositata dai cinesi, questo vaccino era stato già allestito da almeno quattro o cinque società negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in Cina. La prima è stata Moderna, una biotech di Boston specializzata in molecolar therapeutics, che ha sintetizzato l’Rna, testandolo già sui topi per vedere se produce anticorpi in grado di neutralizzare l’infezione virale. Anche se sono stati così rapidi, per arrivare a un vaccino ci vogliono dei trial clinici, cioè almeno un anno e mezzo con procedure semplificate. E possono accelerare, evitando trial clinici con decine di migliaia di persone, solo se questa pandemia continuerà a lungo a scompaginare il mondo.
(Marco Biscella)
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