“Non c’è nessuna zona del Paese dove non circoli” il coronavirus, ma “si confermano i dati di rallentamento” dei nuovi contagiati. Lo ha certificato l’Istituto superiore di sanità, che comunque consiglia di mantenere “molto elevata la soglia delle raccomandazioni e delle restrizioni adottate”. “Anche perché – spiega Andrea Remuzzi, professore associato di Bioingegneria a Bergamo – il picco dell’epidemia non è stato ancora raggiunto. Anzi, bisogna chiarire bene che cosa si intende per picco. Quello che ci aspettiamo riguarda il numero totale dei pazienti affetti dal virus, che sono attivi, che sono vivi, e che dovrebbe a un certo punto decrescere. Ma questo numero ancora non sta diminuendo, sta continuamente aumentando, anche se adesso con una velocità minore”.
Quindi, sono due i picchi?
Esatto. Il primo, già quasi raggiunto visto che siamo arrivati al plateaux, è quello degli aumenti giornalieri dei nuovi infetti. Noi però dobbiamo prestare attenzione all’altro picco, quello in cui poi inizieremo a vedere la riduzione del numero totale di pazienti infetti. Numero che pian pianino dovrà scendere e solo quando sarà vicino allo zero potremo dire che ci stiamo avvicinando alla fine dell’epidemia.
A metà marzo, in piena crescita esponenziale dei contagi, aveva ipotizzato come data il 14 aprile? È ancora così?
Siccome la velocità di aumento sta calando, dovremmo cominciare a vedere una riduzione del numero totale di pazienti infetti probabilmente nel giro di una settimana, dieci giorni. Ma la riduzione dipende dal fatto che ci sia un buon numero di pazienti guariti. Finché non aumentano i nuovi guariti e non diminuiscono i nuovi infetti, non vedremo questo cambio di trend del numero di contagiati totali. Comunque ci avviciniamo molto alla previsione fatta a metà marzo.
È giusto fare la contabilità dei casi positivi giorno per giorno, visto che sono fortemente condizionati dal numero e dai referti dei tamponi, non altrettanto lineari?
Di sicuro è un sistema che ha dei limiti, ma è quello che abbiamo a disposizione. Bisogna però pesare bene quali sono le incertezze e i fattori confondenti, come appunto i tamponi. Siccome i numeri non riguardano la popolazione effettivamente infetta, ma sono un campionamento, di regola sarebbe necessario che ogni giorno siano effettuati gli stessi numeri di tamponi e nella stessa distribuzione geografica. Questo però non avviene e bisogna tenerne conto. I tamponi variano di giorno in giorno, ma se teniamo insieme la loro variabilità, possiamo ottenere un trend su un periodo di osservazione più lungo, che si consolida facendo le medie.
In base alla sua esperienza, come valuta la risposta delle autorità politiche e sanitarie alla sfida dell’epidemia?
È stato fatto quello che ragionevolmente si poteva fare. Forse poteva aiutare essere più precisi e uniformi nei messaggi. Ma la rapidità con cui le autorità hanno capito la gravità della situazione è stata soddisfacente.
Si poteva fare meglio?
Probabilmente sì, ma mettendosi nei panni di chi deve prendere decisioni sulla base di informazioni che cambiano nel giro di poche ore è comprensibile che ci sia stata una risposta di questo tipo. A parte nella fase iniziale, a causa di una certa inconsapevolezza di quel che stava per succedere.
La Business Harvard Review ha criticato l’eccessiva ospedalizzazione adottata in Lombardia, perché non è la risposta più efficace per contrastare l’epidemia. Che ne pensa?
A posteriori lo si può dire facilmente. In quei giorni non si sapeva esattamente qual era la natura di queste polmoniti bilaterali e non si poteva prevedere di cambiare completamente l’organizzazione sanitaria nel giro di 24 ore per fare cose diverse. Non penso sia sbagliato ospedalizzare i pazienti. L’esperienza di Bergamo dimostra che se il paziente viene trattato troppo tardi il numero di decessi aumenta. I contagiati devono essere trattati in tempo e il prima possibile. Se poi si può fare sul territorio, meglio. Ma serve anche l’assistenza in ospedale.
Perché a Bergamo il virus si è diffuso in maniera così massiccia e violenta?
Il virus si diffonde nella stessa misura e con caratteristiche di mortalità molto simili. A Bergamo però il focolaio ha avuto il tempo di diffondersi prima che ci si accorgesse del fenomeno in atto e quando si è intervenuti ormai l’infezione si era già propagata in maniera silente a gran parte della popolazione. Nelle altre aree del paese hanno avuto il tempo di adottare sistemi diversi o le dovute precauzioni. Allora nella provincia di Bergamo era impossibile.
Si corre il rischio che una fase esponenziale dei contagi possa tra poco travolgere il Sud?
Il Sud è un’area a rischio e per evitare un andamento simile a quello che ha colpito il Nord è importante che vengano mantenute e scrupolosamente osservate le misure di restrizione. È l’unica possibilità per mantenere i ricoveri in ospedale in linea con le capacità delle strutture sanitarie nel Sud.
La Val Seriana, epicentro dell’infezione, è un’area industriale tra le più importanti d’Europa, che conta più di 400 aziende, quasi 4mila dipendenti e connessioni con l’estero, Cina e Germania in testa, frequenti e inevitabili. Non sarebbe stato il caso di istituire subito una zona rossa?
Effettivamente c’erano tutte le evidenze per confinare il contagio restringendolo nei quattro-cinque paesi che sono all’inizio della Val Seriana. Penso che abbia pesato più una certa indecisione che una volontà di risolvere il problema in altro modo o di nasconderlo.
Si possono salvare insieme salute ed economia?
È in atto uno sforzo importante per far sopravvivere quella parte dell’economia che non può fermarsi perché garantisce servizi e bisogni essenziali. Ora servono scelte politiche mirate sulle filiere. Secondo me, c’è ancora la possibilità di far ripartire l’economia, ma è una strategia che va molto ben ragionata, da subito.
Che cosa si può fare per accelerare il contenimento dell’epidemia?
Non bisogna assolutamente modificare la condotta, bisogna mantenere il più possibile le norme sul distanziamento sociale e sull’isolamento in casa. Quanto alla gestione delle infezioni, dipende tutto dai territori.
In che senso?
Si fa presto a dire: facciamo i tamponi. Ma farli a 8mila persone è un conto, a 8 milioni è un altro. Bisogna capire come poter gestire questi interventi, perché le risorse non sono infinite. Il personale da mobilitare, la presenza o meno dei reagenti sufficienti, l’organizzazione di questa attività non dipendono dal desiderio di qualcuno. Ci sono limiti fisici del sistema. Adesso si possono concentrare le risorse per monitorare gli operatori sanitari e le persone più esposte al rischio contagio. Ma i territori sono chiamati a una nuova sfida.
Quale?
Mettere in collegamento i pazienti con il sistema di monitoraggio. Tenga presente che nella città di Wuhan hanno istituito 1.800 squadre da 5 persone per tracciare, seguire e guidare i pazienti infetti e i loro contatti. Dobbiamo andare nella stessa direzione: avere un numero molto importante di operatori che possano seguire l’azione di prevenzione e gestione sul territorio.
Come reclutarli?
Questo è “il” problema, altrimenti è anche impossibile solo immaginare la cosa.
Più tecnologia per sopravvivere al virus e favorire la ripartenza del sistema economico. Centocinquanta accademici hanno scritto al governo per suggerire quali misure si debbano prendere nella “fase 2”, quella della convivenza con l’emergenza coronavirus. Che ruolo può giocare la bioingegneria nel contrasto alle epidemie virali?
Il fatto di poter disporre delle tecnologie in ospedale per terapie e assistenza ai pazienti è un fattore decisivo. Purtroppo ci siamo trovati scoperti, perché l’industria biomedicale italiana non ha le dimensioni che dovrebbe avere: il comparto italiano ha un numero di addetti che è un sesto della Svizzera e un quarto della Germania. Quando nel 2008 le industrie manifatturiere del Bergamasco, dalla meccanica al settore elettrico, sono andate in crisi, non le abbiamo riconvertite nel biomedicale. È una carenza che dobbiamo colmare. E poi dovremo implementare la diffusione capillare dei dispositivi tecnologici di sorveglianza attiva: la tecnologia ci può aiutare tantissimo per quanto riguarda test in ambulatorio, test a domicilio, sensori utilizzabili dai cittadini. Ma tutto richiede un’infrastruttura su cui sarà il caso di investire.
(Marco Biscella)