Caro direttore,
questa settimana sono stata a lavorare nella rianimazione coronavirus. Martedì è morto un prete, ormai ricoverato da tempo, attaccato alle macchine da un po’. Sapevamo che sarebbe morto. Io e il mio collega dovevamo pulirlo. Mi sento dire: “Facciamo una cosa rapida, tanto non ci sono i parenti”. Gli ho fatto capire con delicatezza che non importava nulla, e che ognuno aveva la dignità di essere pulito decentemente. Noi infermieri siamo le ultime mani che toccano i pazienti morti prima di quelle di Dio. Ho fatto apposta a pulirlo lentamente e mentre lo facevo mi risuonavano in testa le parole del Salmo 8, citate nel “volantone” di Pasqua: “Che cos’è mai l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Il prete ormai era brutto, con gli occhi rivoltati. Poi è subito arrivata un’altra urgenza e non ho più pensato a lui. Nessuno è venuto a salutarlo, sono arrivati i portantini con la bara. Sembrava un’immensa sconfitta.
La sera sono tornata a casa e ho guardato le foto di questo prete con la sua gente. Aveva un viso bellissimo, buono, e portava gli occhiali! Questo particolare mi ha colpito moltissimo; era un uomo! Non ho mai pianto per un paziente morto, e ne ho visti morire tantissimi (questa settimana solo 4, e non di coronavirus).
Era una persona che non conoscevo, non l’avevo mai neanche seguito da sveglio. Ma quando ho guardato le sue foto e ho pensato a tutti quei preti che, per la loro vocazione, stanno in mezzo alla gente e, senza volerlo, si sono presi questo virus, mi sono commossa. Lui nel suo ruolo di prete fino alla fine ha risposto alla sua chiamata: darsi totalmente. Chi altro si dà così fino alla morte, messo in croce da chi Egli vuole salvare? Anche lui, in maniera così poco desiderabile, ha compiuto la sua vocazione. Ha imitato questo Gesù così matto da sacrificarsi per noi.