In Israele il Coronavirus sembra rappresentare un vero e proprio problema. Nella città di Bnei Brak, al confine con Tel Aviv, si contano ormai oltre 500 contagiati. Qui, come riferisce un reportage di Davide Frattini per il Corriere della Sera, gli infermieri scesi dalle ambulanze per raccogliere i campioni da portare poi in laboratorio vengono respinti a sassate dagli studenti delle yeshiva, le scuole religiose, nel quartiere Mea She’arim a Gerusalemme. Proprio nelle aree dove vivono le comunità ultraortodosse si respira una maggiore complessità. In modo particolare i rabbini avrebbero reagito molto male alle misure restrittive e la polizia incontra sempre più difficoltà nel fare rispettare la quarantena obbligatoria in tutto il Paese. Di recente durante il funerale di un rabbino proprio a Bnei Brak, in migliaia si seguaci si sono riversati nelle strade incuranti della quarantena in atto, al punto da far reagire anche il sindaco della laica Ramat Gan che ha imposto il coprifuoco.



CORONAVIRUS ISRAELE: CAOS TRA LE COMUNITÀ ULTRAORTODOSSE

Intanto Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, ha deciso di sottoporsi per la seconda volta al tampone, dopo essersi messo in auto-quarantena. In entrambi i casi il risultato è stato negativo. Una decisione, quella assunta dal politico, presa dopo che Rivka Paloch, sua consigliera, è risultata positiva insieme al marito. A far parte dell’alleanza di governo, anche i partiti ultraortodossi del Paese tra cui spunta uno dei leader, Yaakov Litzman, che è anche ministro della sanità. Quest’ultimo ha chiesto la chiusura totale di Bnei Brak ma sa che il primo ministro è impegnato nella formazione di una coalizione e necessita di deputati religiosi. Da qui la decisione del premier di procedere per il momento solo con un “rafforzamento delle imposizioni” in alcune zone, nel tentativo di evitare che la quarantena più dura possa essere percepita dagli hredim come una discriminazione. Al momento in Israele il Coronavirus ha fatto registrare oltre 5500 casi con più di 20 vittime. Nei maggiori ospedali del Paese, gli ultraortodossi rappresenterebbero quasi la metà dei pazienti colpiti. A quanto pare ciò deriverebbe anche dalla mancanza di informazioni. “I giovani delle yeshiva non usano gli smartphone, di sicuro non sono connessi a Internet e non hanno la televisione. Stiamo cercando di lanciare l’allarme: affiggiamo manifesti sui muri e passiamo per le vie trasmettendo messaggi dagli altoparlanti”, hanno commentato gli esperi del ministero della Sanità ai media locali.

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