“Le nazioni organizzate in Stati perdono la loro capacità di influire sulla direzione generale delle cose e nel processo di globalizzazione sono private di tutti i mezzi di cui avrebbero bisogno per orientare il proprio destino e resistere alle numerose forme che le loro paure possono assumere“. Con queste parole, l’economista Jacques Attali credo inquadri bene il periodo che ci tocca vivere. La “società aperta”, che nel linguaggio di Popper indicava l’orientamento a nuove possibilità date dalla consapevolezza della propria incompletezza mediante istituzioni democratiche autocorreggibili, è diventata una società “esposta ai colpi del destino” (l’espressione è di Z. Bauman), dove l’apertura sta a indicare – in gran parte per effetto della globalizzazione – l’esposizione radicale a forze incontrollabili provenienti da ogni dove: dall’autodeterminazione di una società libera all’ossessione di essere schiavi dell’ignoto.
La vicenda che stiamo attraversando, il coronavirus, o meglio le reazioni individuali e sociali al problema, mostrano un dato elementare: abbiamo paura. “La paura è con ogni probabilità il demone più sinistro tra quelli che si annidano nelle società aperte del nostro tempo – dice ancora Bauman – Ma è l’insicurezza del presente e l’incertezza del futuro che covano e alimentano la più spaventosa e la meno sopportabile delle nostre paure. Questa insicurezza e questa incertezza, a loro volta, sono nate da un senso di impotenza: ci sembra di non controllare più nulla, da soli, in tanti, o collettivamente“.
Ciò che rende particolarmente insidiosa la paura oggi è il suo carattere evanescente, slegata da ogni minaccia concreta, da ogni oggetto specifico e tangibile, il suo essere normale: un passante, con la faccia un po’ stranita o l’aspetto trasandato ci spaventa… nessuno ci garantisce che non metta in moto il furgone parcheggiato dietro di noi e faccia una strage; un colpo di tosse ripetuto in un mezzo pubblico o in una sala d’attesa ci irrigidisce… potrebbe accelerare il contagio… Diversamente dall’epoca dei nostri nonni (o bisnonni), quando la paura era legata a eventi eccezionali, visibili e identificabili, come la guerra.
Terrorismo, crisi finanziaria, cambiamenti climatici, epidemie sono tutti nemici senza volto che si traducono in un senso di precarietà radicale e generalizzato. Come di fronte al coronavirus, di cui, a ben guardare, si ha paura per una ragione molto semplice: nessun sa in fondo che cosa sia. Gli esperti, ai quali ci si rivolge per dissipare l’incertezza, sono divisi tra chi pensa a una forma influenzale un po’ più seria e chi a una forma semipestilenziale. Ciò che fa paura è esattamente il non possederne una definizione chiara e razionale, che provoca una sorta di “reazione allergica”, individuale e collettiva; la minaccia, non palesandosi davanti a noi, è ancora più forte e le conseguenze per averla trascurata potrebbero essere incalcolabili.
Alla domanda su dove si trovassero le armi di distruzione di massa tanto paventate in Iraq, D. Rumsfeld rispose che “l’assenza di evidenza non è l’evidenza di un’assenza”, ossia anche se il pericolo non si vede, non significa che non ci sia. Ciò, a mio avviso, spiega l’ossessione contemporanea per la sicurezza, sia a livello sociale, dove vengono varate misure sospensive eccezionali, isolando paesi e città al cuore del tessuto produttivo italiano, sia a livello individuale, come dimostrano la facilità e la prontezza con cui si vivono restrizioni delle proprie libertà personali, accettando senza turbamento l’esistenza di barriere anti-terrorismo, che rinserrano eleganti centri storici delle nostre città, o il divieto di portare liquidi o bottiglie d’acqua a bordo di un aereo, oppure di parlare con un impiegato di un ufficio pubblico (chiuso), vestito da chirurgo, separati da un inferriata, come all’interno di un lazzaretto.
L’assetto informe, liquido, della paura le fa assumere sempre nuove sembianze e mutazioni, esattamente come un virus. Così si ha paura di cominciare a contare i “cadaveri” – perdonatemi l’espressione un po’ macabra – lasciati sul terreno dell’economia, dove la chiusura degli impianti di ristorazione, ad esempio, costa diversi milioni di euro al giorno. Il turismo, forse la ricchezza più redditizia del bel Paese, subirà la contrazione più drastica: solo dalla Cina arrivano più di 300 mila turisti ogni anno; tanti rinunceranno alle ferie in Italia, anche quando sarà terminata l’epidemia, che verosimilmente sopravvivrà a lungo nella percezione psicologica della gente di altre nazioni, dove, a ogni notizia di contagio sul loro territorio, non si omette di rimarcare che l’infetto ha avuto un qualche legame con l’Italia. Per non parlare della crisi della produzione, dovuta principalmente al fermo della Cina, ormai parte integrante e fondamentale nella condivisione internazionale della catena del valore.
C’è una lezione in tutto questo? Preziose – almeno per me – sono le parole del sociologo Frank Furedi in una sua lucida analisi sul tema della paura: “Una delle paure interessanti che abbiamo oggi, che non ammettiamo, di cui non parliamo mai in pubblico, è la paura di noi stessi. Tutte le paure di cui stiamo parlando si basano su un potente stato generale di misantropia che esiste all’interno della nostra società. […] Il nostro dibattito sulla paura non è incentrato sulla paura in quanto tale, ma [sul] problema del significato della società del ventunesimo secolo. In un mondo dove è sempre più difficile parlare di giusto e sbagliato, condividere valori comuni basati su uno spazio morale, crediamo che l’unico modo in cui sia possibile per noi dare un qualsiasi tipo di definizione morale sia attraverso la paura“.
Anche il virus è un’occasione per recuperare l’attenzione ai significati, da quelli più comuni a quelli più universali.