Solo ieri 627 decessi, il maggior incremento dall’inizio dell’emergenza, per un totale di 4.032 vittime. Perché la mortalità da coronavirus in Italia è maggiore di quella della Cina e, ora che l’incendio coronavirus ha esteso i suoi focolai anche in Europa, è la più alta tra i paesi Ue? Bastano pochi numeri: in Italia il rapporto positivi/vittime è dell’8,3%, in Germania e Austria è dello 0,3%, in Norvegia dello 0,4%, in Danimarca dello 0,5%, in Svizzera poco superiore all’1%, in Belgio dell’1,2%, in Francia del 3,4%, in Spagna (martoriata dal Covid-19, tanto che a Madrid muore un contagiato ogni 15 minuti) è del 4,6% e in Gran Bretagna è del 5,1%. Finora si è sempre detto che il problema risiede nella composizione per fasce di età della popolazione, ma negli altri paesi europei è più o meno simile alla nostra. E allora, come si spiega questo gap così vistoso? Carenza di cure? Mancanza di letti in terapia intensiva? Sistema sanitario inefficiente? O c’è dell’altro? Secondo il ministero della Salute tedesco, il numero dei contagiati in Italia è largamente sottostimato: probabilmente va più che raddoppiato, e già questo abbasserebbe il tasso di mortalità almeno a livello della Spagna, se non della Francia. E la tesi viene condivisa da Mirella Pontello, specialista in Igiene e medicina preventiva e in Microbiologia. 



I dati sulla letalità in Italia sono impressionanti e si discostano da quelli cinesi ed europei. Come si spiega? Carenza nelle cure o bias nella raccolta dei dati? 

Premesso che ad epidemia in corso, data la velocità con cui la situazione evolve, non si può avere un calcolo preciso della letalità e che quindi i dati danno solo un’idea di ordine di grandezza e vanno presi con le pinze, possiamo comunque provare a ragionare su alcuni aspetti. Se paragoniamo i dati cinesi – letalità complessiva del 3,9% dall’inizio dell’epidemia, calcolata in base ai dati del 18 marzo – con la letalità osservata sempre il 18 marzo in Italia si evidenzia una sconcertante sproporzione: la letalità nel nostro Paese sfiora addirittura l’8%, mentre in Europa la mortalità media, di poco superiore al 4%, è vicina a quella cinese. Tuttavia in Italia – dove “pesa” tantissimo la situazione della Lombardia – il tasso di letalità all’inizio dell’epidemia era circa del 2% ed è arrivata al 3,9% l’8 marzo, il giorno in cui è stato emanato il Dpcm.



Quali sono i fattori che possono spiegare questa sproporzione?

Non può essere attribuita alla differente composizione della popolazione rispetto a quella cinese, perché è vero che la nostra popolazione è più anziana di quella cinese, ma questo era vero anche l’8 marzo.

E quindi?

Quindi dobbiamo ragionare sui criteri di raccolta dei dati che determinano sia il numeratore che il denominatore della letalità. Ricordiamo infatti che il tasso di letalità viene calcolato come rapporto tra numero di morti e numero di malati. Sebbene ci siano dei motivi per pensare che anche il numero dei morti sia sottostimato – quanti decessi non vengono diagnosticati perché la morte è avvenuta al domicilio? – e che quindi il tasso potrebbe essere ancora più elevato, anche sul denominatore ci sono forti elementi di sottostima, forse anche più significativi.



Che cosa intende dire?

Quale probabilità ha oggi un soggetto infetto e asintomatico o pauci-sintomatico di essere testato e identificato? Ci si limita a eseguire il test solo se i sintomi sono di un certo rilievo. In base a una segnalazione ricevuta come “comunicazione personale” in un laboratorio milanese di riferimento la percentuale di campioni positivi è aumentata progressivamente, essendo oggi superiore all’80%, cioè i campioni vengono raccolti quasi esclusivamente da soggetti con una situazione clinica già fortemente indicativa di infezione da coronavirus. I criteri per fare il test sono cambiati mentre l’epidemia era in corso e quindi anche i confronti sono poco fattibili. Probabilmente nella prima fase si era più “sensibili” nella diagnosi e si “catturavano” – come dicono gli epidemiologi – anche i casi infetti senza o quasi senza sintomi, indagando i contatti nelle zone rosse eccetera, poi i criteri per l’accertamento diagnostico si sono ristretti e si indagano soprattutto i casi più severi che arrivano in ospedale e che si selezionano anche per età, vista anche la differenza nella mediana di età in Italia, 63 anni, rispetto all’Europa, 43 anni.

Sta forse dicendo: quanti infetti senza sintomi o con sintomi così lievi da rimanere al proprio domicilio perdiamo e che potrebbero incrementare il denominatore?

Ricordo che l’Oms definisce caso confermato “A person with laboratory confirmation of Covid-19 infection, irrespective of clinical signs and symptoms”. Nell’ipotesi che i morti siano realmente – come in Cina e nel resto d’Europa – il 4% del totale (e non l’8%) a prescindere dalla gravità del quadro clinico, dovremmo ipotizzare che i casi siano il doppio di quelli riportati (95mila invece di 47mila). Questo potrebbe anche significare che molte più persone si siano immunizzate e questo potrebbe rappresentare un fattore favorevole: più immuni ci sono nella popolazione e più rallenterà la circolazione del virus.

Nei giorni scorsi l’Oms ha lanciato l’allarme a livello globale: “Questa è una malattia grave. Anche se le prove che abbiamo suggeriscono che gli over 60 sono a maggior rischio, sono morti anche giovani, compresi i bambini”. All’inizio si diceva che i giovani erano più resistenti al virus. Adesso perché vengono colpiti?

Il coronavirus può causare, non in tutti i contagiati, una polmonite virale bilaterale che è grave, perché comporta difficoltà di respiro (dispnea) fino all’insufficienza respiratoria che mette a rischio la vita: quindi è sbagliato dire che è come un’influenza, anche se i sintomi si assomigliano, sono cioè “aspecifici”. La gravità è certamente correlata con i sottostanti fattori di fragilità del soggetto infettato e anche con l’età.

A quali fattori di fragilità si riferisce?

In Italia il peso delle concomitanti patologie, e parliamo di cardio-bronco-pneumopatie, diabete, forme neoplastiche eccetera, sembra molto significativo se consideriamo che il 48,5% dei deceduti in Italia aveva tre o più patologie sottostanti e che anche i rari casi di decesso in persone giovani (5 casi sotto i 40 anni) preesistevano gravi patologie; solo per 3 casi (0,8%) il soggetto non soffriva di altre patologie sottostanti.

E il fattore età quanto pesa?

In Cina l’età mediana dei casi è di 51 anni e in Europa 47 anni, mentre secondo i dati del bollettino Iss del 16 marzo in Italia l’età mediana è 63 anni e solo il 5% ha meno di 30 anni. Sono, inoltre, colpiti più gli uomini (60% dei casi) che le donne (40%). Quanto alla letalità, in Italia l’età mediana dei casi deceduti è 80 anni e i decessi si concentrano (96%) nei soggetti di età superiore ai 60 anni. Non è stato registrato nessun caso mortale in soggetti di età inferiore a 30 anni.

Posto che è un virus “nuovo” e che quindi tutta la popolazione è suscettibile, perché i più giovani e soprattutto i bambini si infettano e s’ammalano di meno?

Probabilmente sono stati esposti, almeno all’inizio dell’epidemia, come il resto della popolazione e l’infezione è rimasta del tutto asintomatica o pauci-sintomatica. Potrà essere utile, passata la tempesta epidemica, fare studi di siero-epidemiologia per valutare la prevalenza degli anticorpi per classi di età nella popolazione, utile anche per definire le eventuali strategie vaccinali.  Non è il primo agente virale per il quale si dimostra un diverso comportamento rispetto alle classi di età. Anche il virus della poliomielite e dell’epatite A, per esempio, sono più aggressivi negli adulti che nei bambini.

E nel caso del coronavirus?

Sono state avanzate diverse ipotesi anche contraddittorie. Personalmente credo più sostenibile l’ipotesi, da approfondire e verificare, che nella risposta dell’ospite verso il virus l’iper-reazione infiammatoria, che sostiene la polmonite interstiziale, sia più forte nell’adulto e meno intensa nelle prime classi di età. Noto anche che l’infezione nelle donne in gravidanza non sembra assumere, per fortuna, caratteri aggressivi, forse proprio perché la donna gravida in certa misura è fisiologicamente immunodepressa e quindi “reagisce” meno intensamente. Pensiamo al caso 1 di Codogno con una forma molto grave e la moglie infetta, senz’altro con lo stesso ceppo virale, e gravida, ma senza necessità di ricovero.

I giovani sono più insofferenti alle restrizioni. Al di là delle regole stabilite dal decreto del governo, ci sono precauzioni particolari da suggerire?

Difficile pensare ad altre restrizioni, se non – forse – nel limitare senza però impedire del tutto le attività all’aria aperta: rimanere a poca distanza da casa, muovendosi a piedi da soli o al massimo in due. Penso, per esempio, ai bambini: per fare anche una breve passeggiata ci vuole un accompagnatore o i bambini devono rimanere in casa per settimane? Poi, ma non riguarda solo i giovani, restringere un po’ di più gli orari di apertura di negozi e supermercati. Il punto più forte è la responsabilità di ogni persona.

“Un semplice messaggio per tutti i Paesi: test, test, test. Fate il test ad ogni caso sospetto di Covid-19”. È il monito dell’Organizzazione mondiale della Sanità. E anche il governatore Zaia rilancia: faremo tamponi a tappeto. È la soluzione per scovare i tanti “casi ignoti”?

Mai fare tamponi “a tappeto”. Oltre agli aspetti economici e organizzativi, si devono chiarire bene i criteri e gli obiettivi dello screening. Che cosa vogliamo sapere e in funzione di quali interventi di prevenzione o altro ci serve testare la popolazione? Personalmente credo che si dovrebbe facilitare il test nei contatti dei casi per “catturare” gli asintomatici-contagiosi e negli operatori sanitari. Penso soprattutto ai medici di base, molto esposti e forse un po’ “trascurati” in questa fase. Sono più a rischio – come la cronaca anche luttuosa ha dimostrato – di chi opera in ospedale, anche nelle terapie intensive, con tutte le giuste precauzioni.

È probabile che il picco dell’emergenza coronavirus in Italia “non arrivi la prossima settimana, ma quella dopo: tutti dicono che stiamo andando verso il picco e ci auguriamo che sia quanto prima”. Lo ha detto il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. È così?

Spero anch’io che arrivi quanto prima. Ma si dovrebbe guardare soprattutto all’andamento della curva dei casi definiti in base alla data dei primi sintomi, cioè alla data di vero esordio della malattia, e non alla curva costruita in base alla data di diagnosi.

Secondo uno studio del Public Health England, il Covid durerà almeno un anno, con una mitigazione entro l’estate e un ritorno di fiamma il prossimo autunno. Il virus può rialzare la testa?

Difficile dirlo, certo dipenderà dalla quota dei suscettibili nella popolazione e dalla disponibilità di un vaccino. Per quest’ultimo si vedrà, non è così semplice allestirlo, anche se le biotecnologie di cui disponiamo sono davvero molto avanzate.

Negli Usa, in Olanda, in Israele e in Germania sono in fase avanzata studi su cure e farmaci, a Seattle parte un test su 45 volontari giovani e sani per sperimentare un vaccino. Potremmo arrivare a una cura nel giro di pochi mesi, e prima della prossima ondata influenzale d’autunno? 

C’è proprio da augurarselo. Poterne disporre verso l’autunno-inverno prossimo sarebbe un grande risultato, ma si dovrà anche ragionare sulle strategie: a chi proporre il vaccino? A quali classi di età? Solo agli anziani?

(Marco Biscella)

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