Fino a che punto lo Stato può limitare l’esercizio dei diritti costituzionali? Può condizionare le abitudini dei cittadini, sino a vietare l’esercizio di attività professionali o vietare la salutare corsa mattutina? Certo, sono scene viste in Paesi illiberali – di stampo orientale – ma in Italia? La crisi da coronavirus sta diventando la scusa per instaurare un nuovo regime?



Le risposte si trovano tutte in Costituzione. La quale nel prevedere i diritti (e i doveri!) dei cittadini ne specifica altresì i limiti, operando un bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti. Un bilanciamento la cui flessibilità muta al mutare della situazione di fatto, come nel caso della grave emergenza in corso.



Per rendercene conto basta leggere l’art. 16 della nostra Costituzione che garantisce a ogni cittadino la libertà di circolare e soggiornare in qualsiasi parte del territorio nazionale. Tuttavia, la stessa disposizione consente alla legge di stabilire limitazioni in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Insomma, la Costituzione, in casi di emergenze, che mettano a rischio salute e sicurezza, può impedire ai cittadini di circolare sul territorio. In altri termini, in caso di necessità, si preferisce la salute al jogging quotidiano. Attenzione, quando parliamo di salute non si intende la sola salute dei singoli che potrebbero contrarre il virus, ma altresì (verrebbe da dire, soprattutto) la salute collettiva. Per utilizzare le parole dell’art. 32 Cost. la salute è “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. In tal senso, la peculiarità di questa emergenza sta nella constatazione che solo tramite l’isolamento si può evitare il contagio e la diffusione del virus. Dunque, in capo ai cittadini, al fine di tutelare la salute, oltre al legittimo limite alla circolazione, si aggiunge il dovere costituzionale di solidarietà previsto all’art. 2 Cost. (principio fondamentale della Repubblica).



Bene allora limitare la libertà di circolazione, ma è mai possibile vietare ai cittadini di uscire di casa? Questa (come detto da alcuni) non sarebbe una limitazione della libertà personale? E se fosse libertà personale non richiederebbe un ulteriore provvedimento di garanzia dell’autorità giudiziaria?

Il punto è che, nel diritto costituzionale (ma anche nel discorso comune), la differenza tra i due diritti è chiara e non può essere confusa. Le limitazioni di questi giorni, infatti, anche se arrivano a vietare l’uscita di casa (salvo per validi motivi), sono comunque limitazioni della libertà di circolazione. È chiaro, siamo d’accordo, si tratta di limitazioni fortissime, ma probabilmente commisurate alle esigenze di salute testé descritte. Tali limiti, seppur stringenti, sono comunque rivolti alla sola libertà di circolazione, e si tratta di previsioni previste “in via generale”, cioè non rivolte a singole persone o a categorie determinate (gli zingari o gli immigrati) e nemmeno per ragioni politiche. In tal senso, sembra andare ad esempio il decreto del Tar Campania (n. 00416/20) che ha rigettato il ricorso contro l’ordinanza regionale che adotta misure (asserite) assai stringenti alla libertà di circolazione.   

Lo stesso meccanismo sin qui descritto lo si può applicare anche per limitazioni ad altri diritti – in questi giorni in vigore – come alla libertà di riunione (art. 17 Cost.) o a quella d’impresa (art. 41 Cost.).         

Ma come introdurre queste limitazioni? Questo è il punto. Perché c’è chi ritiene che queste prescrizioni possano essere previste solo con legge o al massimo con decreto–legge. Invece, nell’attuale contesto, tali previsioni sono adottate con ordinanze (di Sindaci o Presidenti di Regione) o Decreti del Governo. C’è dunque una violazione della Costituzione?

La risposta è no. In estrema sintesi funziona così: nei limiti sopra esposti fissati dalla Costituzione la legge conferisce alle amministrazioni competenti i poteri per l’attuazione in concreto delle misure di contrasto all’emergenza. E lo fa perché solo l’amministrazione con i suoi atti può garantire la flessibilità che l’emergenza in corso richiede. E questo avviene perché un solo decreto–legge non può regolare situazioni di necessità che variano continuamente, di giorno in giorno, e in modo diverso nei diversi territori. Il tutto, in una situazione in cui lo stesso Parlamento trova difficoltà a riunirsi per svolgere le sue funzioni. Ecco perché dopo la prima misura d’urgenza dello scorso 23 febbraio (d.l. n. 6), da cui sono derivati i vari Decreti attuativi del Presidente del Consiglio dei Ministri – che hanno eseguito e specificato limitazioni ai diritti dei giorni scorsi – in queste ore il Governo si sta affrettando ad approvare un nuovo decreto–legge che prevede nuove prescrizioni. Un nuovo decreto d’urgenza che conferma ed estende i poteri delle amministrazioni che nei prossimi mesi (sembrerebbe fino al prossimo 31 luglio) dovranno regolare l’emergenza per le rispettive competenze. Altra cosa sarà piuttosto risolvere i problemi derivanti dall’introduzione di diverse discipline in diversi territori nei rapporti tra Stato, Regioni e Comuni, le cui prescrizioni spesso non sono di semplice coordinamento, sembrando talvolta in contrasto. Ma del resto l’emergenza in certe parti d’Italia è diversa da quella di altre parti. Nell’interpretare tali diverse discipline, dunque, è bene tenere presente che in gioco vi è sempre la salute della collettività nazionale (e che il virus non conosce i confini delle circoscrizioni territoriali).

Il sistema sin qui descritto, con le dovute differenze, non è molto diverso da quanto la Costituzione prevede nei casi di conflitto bellico (art. 78). Essendo necessario assumere decisioni rapide in un contesto in cui si è sotto attacco – talvolta con la difficoltà di far operare il Parlamento – si trasferiscono poteri e responsabilità in capo a un unico centro di decisione, che è poi il Governo.

È questa l’instaurazione di un ordinamento illiberale? 

Quanto sin qui detto, dovrebbe far capire che non c’è nessun pericolo per la democrazia, anzi il pericolo viene dall’emergenza. E per questo, è bene ricordare, che gli atti amministrativi (anche quelli emergenziali adottati in questi giorni dal Governo e dalle amministrazioni locali) possono essere impugnati da chiunque per l’immediato annullamento davanti al giudice amministrativo.

Nei casi di emergenza, in particolare in quelli così tragici, vale l’antico principio: salus populi suprema lex esto. Oggi più che mai questa formula deve essere presente a chi ha responsabilità di governo, in ossequio alla nostra Costituzione, che, come visto, espressamente prevede limiti ai diritti per ragioni di sicurezza. Certo dispiace constatare che parte della cittadinanza non comprenda la gravità della situazione e continui a ignorare i divieti (nonostante incorra in responsabilità), ma del resto anche a questo serve il diritto. Spesso lo dimentichiamo: una comunità non sopravvive se si limita a garantire i soli diritti, è altresì necessario, nell’interesse di tutti, assicurare anche il rispetto dei doveri (a sostegno dei diritti). Ad esempio, per intendersi, senza andare lontano: la salute è un diritto, ma contribuire da parte di tutti con i tributi – anche per sostenere, tra gli altri, il sistema sanitario – è un dovere.

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