Sono “domande ineludibili” per Milena Gabanelli; “questioni sconvolgenti”, se non addirittura “strategie criminali” per Roberto Saviano. L’emergenza coronavirus, con il suo carico di lutti, ha messo sul banco degli imputati il sistema sanitario lombardo. I capi d’accusa? Si va dall’eccessiva ospedalizzazione alla gestione delle Rsa, dallo scarso utilizzo dei medici di base alle incertezze nell’uso dei tamponi soprattutto per individuare i pazienti asintomatici. I pubblici ministeri? Partiti politici e giornali che tifano apertamente per un ritorno allo statalismo e al centralismo, tanto da aver promosso e sostenuto una raccolta firme per “commissariare la Lombardia”. Sul banco degli imputati, il governatore Attilio Fontana e l’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Ma dietro di loro si staglia il vero obiettivo, il bersaglio grosso è un altro: approfittando di un virus misterioso e perfido, si vuole affossare definitivamente l’unica esperienza vera di sussidiarietà orizzontale realizzata in Italia in campo sanitario e che, con buona pace di tutti, è considerata una vera eccellenza riconosciuta nel mondo.



Un piccolo passo indietro. Innanzitutto è giusto ricordare che non in tutta la Lombardia l’emergenza coronavirus ha colpito allo stesso modo che a Bergamo o Brescia, dove è praticamente scoppiata una bomba atomica dagli effetti devastanti. Ci sono ben 6 province su 12 (Sondrio, Varese, Lecco, Como, Mantova e Pavia, citate in quest’ordine in base al numero dei casi positivi censiti) che non sono mai entrate in una fase emergenziale, anzi. Prendiamo Varese: con 1.884 casi (dato aggiornato al 15 aprile), presenta una casistica assai migliore rispetto ad altre province che hanno grosso modo la stessa popolazione provinciale: Verona conta 3.649 casi positivi, Padova 3.450, Bologna 3.380, Vicenza 2.136, Venezia 2.013. E si comporta meglio anche di province che hanno una popolazione assai inferiore: Reggio-Emilia, per esempio, registra ben 3.982 casi positivi, Piacenza 3.223, Modena 3.217, Parma 2.616. Forse che per Varese o per la stessa Lodi, che è uscita benissimo dopo il caso Codogno, le decisioni della Regione Lombardia sono state diverse? E perché, pur con queste differenze, si parla di un generico e generalizzato caso Lombardia? “In effetti, siamo in presenza di polemiche sterili e pretestuose” – sottolinea Luca Merlino, dal gennaio 2020 direttore sanitario del centro cardiologico Monzino a Milano e già direttore dell’Osservatorio epidemiologico regionale, a cui abbiamo voluto affidare il compito di “avvocato difensore” della Regione Lombardia, per rispondere alle “domande ineludibili” e per spiegare le “questioni sconvolgenti”.



Innanzitutto, che cosa è successo in Lombardia?

Siamo stati al centro del fungo atomico, catapultati di colpo in una condizione unica non paragonabile con nessun’altra zona d’Italia. La Lombardia ha pagato lo scotto di essere stata investita per prima dall’emergenza coronavirus e ha scontato l’assoluta mancanza di protocolli terapeutici per un virus fino ad oggi sconosciuto e caratterizzato da particolari modalità di attacco di diversi organi e apparati. Si può dire piuttosto che quello che i nostri specialisti sono riusciti a fare, scoprire e sviluppare giorno dopo giorno è poi servito da lezione e beneficio per tutti gli altri. Ma in questo tsunami, voglio ricordare un solo numero: sono state finora più di 28mila le vite salvate in Lombardia in questa emergenza Covid.



Eppure la Lombardia è al centro di inchieste ed è fatta oggetto di critiche e accuse pesanti. Partiamo dalla prima: nell’emergenza coronavirus ha fatto eccessivo ricorso all’ospedalizzazione. Un errore grave?

È sbagliato dire questo, è una critica ingiusta. La questione va contestualizzata. La Regione Lombardia, e certo non per colpa sua, ha subìto un’improvvisa e violenta esplosione dell’epidemia. All’inizio si è verificato il caso di Codogno e del Basso Lodigiano, ma l’individuazione della zona rossa ha consentito, bloccando i cittadini, di circoscrivere le infezioni.

Il vero problema è esploso poi nella Bergamasca.

Ma lì le responsabilità della Regione sono nulle. Molto probabilmente l’innesco del focolaio divampato nella provincia di Bergamo è stata la partita di Champions League Atalanta-Valencia. Purtroppo, in nessun’altra Regione d’Italia è successa una cosa simile, tanto che ci si è trovati ad avere in pochissimo tempo tantissimi malati e molto gravi che, qualora non fossero stati ricoverati, al domicilio non sarebbe stato possibile assisterli somministrando loro farmaci adeguati. Il Covid-19 è un virus nuovo, sconosciuto, e se adesso è tutto un po’ più chiaro – si possono usare l’idrossiclorochina, il cortisone, certi antibiotici, l’eparina, diversi anti-virali… -, all’inizio invece si sapeva poco o nulla. Quindi gli ospedali erano di sicuro i luoghi più adeguati a provare e capire quali fossero le strategie terapeutiche più corrette.

Perché?

Ricorrere alle cure domiciliari è un principio che vale adesso, visto che abbiamo imparato dall’esperienza dei ricoveri quali farmaci poter somministrare. Non a caso i dati mostrano che da un certo momento in poi anche la mortalità si è ridotta in modo significativo, perché anche a casa adesso sappiamo quali farmaci dare. Ha ragione l’assessore Gallera: siamo stati al centro del fungo atomico. Dunque la scelta giusta da fare in quel frangente era proprio quella che è stata adottata: potenziare gli ospedali, dove ci sono le condizioni migliori, le competenze specialistiche migliori per poter individuare le cure più adatte.

I critici però incalzano: aver concentrato nelle corsie degli ospedali molti malati Covid ha fatto sì che in quei reparti, chiusi e circoscritti, il focolaio divampasse come un incendio. Che cosa risponde?

Non è così. In effetti, fin da subito, secondo la logica dell’isolamento per coorte sono stati creati dei reparti Covid separati dal resto delle altre unità operative. È esattamente il contrario.

Ma in Veneto, per esempio, proprio perché non hanno fatto ricorso a una massiccia ospedalizzazione, mantenendo e sorvegliando i malati da casa, hanno mitigato i contagi e mantenuto basso il numero dei morti…

Ma in Veneto hanno dovuto fronteggiare molti meno casi, non hanno avuto la stessa esplosione che ha coinvolto, in poco tempo, la Lombardia. In Veneto l’epidemia ha avuto una progressività che, in virtù anche dell’esperienza lombarda, ha permesso di capire quali fossero i farmaci corretti da somministrare. Per questo è stato possibile lasciare i malati a domicilio, fornendo però gli stessi farmaci utilizzati negli ospedali. Cosa che anche in Lombardia si è iniziato a fare, ma nei primi, drammatici 15 giorni di marzo non c’erano alternative: o si ricoverava o stare a casa voleva dire morire. In Veneto non è scoppiato nessun focolaio di intensità pari a quello della Bergamasca, hanno avuto un paese come Vo’ Euganeo che è paragonabile a Codogno. E a Codogno, che è stato isolato, si sono visti buoni risultati in termini di contenimento dei contagi e dei decessi.

Si dice anche che in Lombardia manchino politiche di public health. È così?

È una critica che andrebbe circostanziata meglio. E poi, proprio il caso di Milano dimostra che non è vero che non si è fatta sanità pubblica: in città il blocco ha funzionato benissimo.

Cosa ribatte a chi imputa alla Regione di non aver impartito sufficienti indicazioni al personale ospedaliero?

Non è vero. In qualità di direttore generale del Monzino, fin dalla fine di febbraio ho separato i percorsi, ho allestito il triage all’ingresso, ho messo a disposizione i Dispositivi di protezione individuale a tutti gli operatori della struttura. Non è vero che non sono state fornite indicazioni, sono state emanate delibere e circolari.

Arriviamo al nodo delle terapie intensive. Perché così pochi posti letto?

Premesso che in Lombardia abbiamo 113 unità operative di terapia intensiva, di cui 41 nel privato accreditato, con circa un migliaio di posti letto, di cui 330 nelle strutture private, vorrei ricordare che il Dm 70 del 2015 sui criteri per l’organizzazione dell’offerta ospedaliera ha fornito, alle varie tipologie di unità operative, degli standard di riferimento. E la Regione Lombardia con i 113 reparti a cui accennavo prima si attesta comunque al massimo livello di terapie intensive previsto da quella norma. Il confronto non può essere fatto con le altre Regioni, ma con la norma nazionale.

Passiamo a test e tamponi. Ha ragione chi denuncia che la Regione ne ha effettuati pochi in rapporto alla popolazione e solo ai plurisintomatici, lasciando fuori asintomatici e paucisintomatici?

Ma queste sono le indicazioni che arrivano dall’Oms e dai decreti ministeriali, che hanno sempre consigliato di effettuare i tamponi solo ai soggetti con sintomi. Anche perché il tampone non è uno strumento di screening, ma di diagnosi. Usare il tampone per fare screening a tappeto, cioè per andare a vedere random chi è positivo e chi negativo, è inutile e sbagliato: si fotografa l’istante, ma l’istante successivo la fotografia può essere totalmente diversa.

Altro punto dolente è la carente sorveglianza territoriale dei contagi, con malati non interpellati dalle Ats, medici di base lasciati andare allo sbaraglio, numero esiguo di Usca (Unità speciali di continuità territoriale).

Mi sembrano affermazioni aprioristiche. I medici di medicina generale si sono adoperati per il massimo permesso dal loro ruolo e dalle loro competenze. Anche loro hanno pagato lo scotto di trovarsi di fronte a un’infezione sconosciuta con terapie che all’inizio dell’epidemia non erano note. L’emergenza Covid ha riproposto all’attenzione la necessità di ripensare la medicina del territorio, rendendola realmente una “cerniera” tra l’ospedale e le case dei pazienti con il necessario supporto specialistico. Al riguardo il progetto regionale di presa in carico dei pazienti cronici rappresenta di sicuro un modello da guardare con attenzione, in quanto favorisce l’integrazione fra gli specialisti e i medici di medicina generale. La necessità di rivedere il ruolo della medicina del territorio, tuttavia, non è un problema della sola Lombardia, è un problema nazionale.

E le Usca?

Se ne contano meno del previsto anche perché i numeri dei nuovi contagi si stanno riducendo. E comunque adesso funzionano meglio, proprio perché nel tempo hanno imparato, dopo l’iniziale fase di ospedalizzazione, come si prende in cura un paziente Covid a domicilio.

Altro capitolo spinoso quello della zona rossa di Nembro e Alzano Lombardo. La Regione ha peccato di poca autonomia decisionale?

In questo caso c’è stato un tira-e-molla con il governo, la Lombardia lo aveva chiesto.

Sulla drammatica situazione nelle Rsa sono state avviate anche delle inchieste giudiziarie. Sotto accusa è finita soprattutto la delibera dell’8 marzo con cui la Regione ha deciso di spostare i dimessi Covid in queste residenze. Un’avventatezza?

La decisione di spostare i pazienti Covid meno complessi appena dimessi in ambiti Rsa è stata presa raccomandando a chi si fosse reso disponibile di mettere in atto le opportune azioni di segregazione per coorte dei pazienti Covid e di provvedere al corretto utilizzo dei Dpi (Dispositivi di protezione individuale). Ma se guardiamo con attenzione, il problema dei contagi nelle Rsa non tocca solo la Lombardia, è “una strage italiana”, come ha ricordato anche Ranieri Guerra dell’Oms.

(Marco Biscella)

(1 – continua)

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