Qualcuno, sbadatamente, pensa siano una sorta di pubblicità, visto che le campane, quando suonano, lo fanno per avvisare di un appuntamento. Qualche altro le collega alla domenica: il suono delle campane, le persiane spalancate, il profumo di caffè, un respiro a fondo fatto ad occhi chiusi. Altri ancora, se fosse in loro potere, farebbero una petizione per far mettere il campanile in vibrazione come il cellulare. Le campane, tanto care al poeta Giovanni Pascoli, all’ora del tramonto: “Don, don, mi dicono, dormi! Mi cantano, Dormi! Sussurrano, Dormi! Bisbigliano, Dormi!” mentre le rondini volano nella limpida sera. Il loro suono è simile alla ninna–nanna: un promemoria, per il Pascoli, delle intonazioni che sua madre gli cantava sul calare della giornata.
Le campane stonate, intonatissime: “Voce che trasvola sul mondo, canto che piove dal cielo sulla terra, nella città sorda e irrequieta e nel silenzio dei colli” (G. D’Annunzio). Dal terrazzo di casa nostra, la sera, chi sporge l’udito ode il suono di quattordici campanili: è la loro buonanotte, al rintocco dell’Ave. È il saluto al popolo che si chiude nelle case.
Il popolo tenuto fuori dalle chiese in questi giorni: “Vietate le adunanze e le occasioni di affollamento”. Chiese chiuse per troppo pericolo! Al mio paese, la memoria anziana ricorda che, proprio in caso di pericolo, ci si recava con ancor più fede in chiesa: “Mai subìto un affronto del genere” è la loro litania. Chiuse le chiese: però rimangono aperti i centri commerciali, i supermercati, gli aeroporti, il Parlamento, i ristoranti. Strutture di massa aperte h24. Sono forse untori coloro che, mani giunte, pregano Dio che calmi la tempesta, dica qualcosa al vento, faccia star buono il virus?
Meno male sono rimaste le campane, questa settimana, a tenerci accesa la speranza al tempo del digiuno eucaristico. Nella cacofonia di città stordite da migliaia di suoni – vagiti, clacson, urla, bestemmie e risa – con i loro rintocchi ci hanno ricordato quella Presenza cui additano: Presenza che, nell’assenza, si è fatta più ardita. In piazza, al rintocco della campana, ho visto una donna scriversi il segno della croce sul volto; un ambulante, con lo sguardo, si è voltato verso la torre; un bambino, per mano alla mamma, le ha chiesto che ora fosse.
Sono tornate, le maledette benedette campane, a riprendersi il loro posto: per ritmare il tempo con un linguaggio ecumenico che parla di appuntamenti, di parcheggi, di corse. Campane–postino: battono lente quando portano l’annuncio di un lutto, danzano veloci il giorno di Pasqua, stanno immobili il venerdì santo. Per capirle non basta sentirle, occorre ascoltarle: il timbro, il numero dei rintocchi, il ritmo. Basta poco e il lutto tramuta in festa, l’attesa esplode in gioia.
Per i distratti, invece, le campane, suonano per niente: “Et ego campana numquam denuntio vana” (“Ecco io, la campana, non annuncio mai cosa vana”) ho letto, inciso, in una di esse. Fanno tantissime cose le campane: radunano, cantano, stimolano. Sono contatori pubblici di eventi privati, di appuntamenti intimi; le guerre, i giorni e le ore, il temporali, le feste, gli incendi. I nonni, ascoltando i loro rintocchi, le sapevano chiamare per nome. Conoscevano a memoria le preghiere imparate leggendo le scritte incise sui loro bronzi. Il prete benediceva la campana. Erano una sorta di portafortuna multiuso: per piangere i defunti, frantumare tempeste, annunciare le feste, stimolare i venti, placare i violenti. Campane tuttofare.
Quando risuonano, in quest’assurda e ingiustificata clausura, ci torna alla mente la chiesa, la comunità, il Dio pregato: la nostalgia punge il cuore e rende confusa l’obiettività. Al loro suono, anche solo simbolicamente, sta appesa la speranza, il buon–senso di una comunità, una storia d’amore “clandestina” con il Dio lungamente pregato. Basta un rintocco e s’avverte il peso di un’assenza. Il mistero di una fede che, vessata, resta appesa all’esile suono di una campana.