Caro direttore, ieri a Milano chi voleva andare alla Messa vespertina non ha potuto farlo perché l’arcivescovo Delpini ha disposto di non celebrare più Messe pubbliche fino a nuovo ordine, che sarà quello stabilito dall’autorità sanitaria. La sua decisione era stata preceduta, e poi seguita, da altri vescovi ma, naturalmente, quella del vescovo di Milano è quella che fa più scalpore.



Il cattolico che ieri ha scoperto, con tristezza, di non poter partecipare all’Eucarestia, se n’è dispiaciuto, certo, ma non ha pensato di essere venuto meno a un precetto (se l’ordinario del luogo dispone che non c’è la Messa, alla Messa non ci si può andare…), né ha creduto di trovarsi di fronte a una Chiesa “senza fede” che, invece di credere al Padre Eterno, ha cominciato a credere a San Roberto Burioni; né ha borbottato che “i santi preti di una volta si stanno rivoltando nella tomba” e che “ci negano di fare la Comunione proprio adesso che ne abbiamo più bisogno”. Perché i preti – anzi i santi – di una volta, facevano esattamente lo stesso. Ho presente ora il caso del venerabile Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia di cui è in corso la causa di beatificazione, che nel 1854 durante l’epidemia di colera dispone che ai moribondi non si dia il viatico perché, anche se non era chiaro il come, era evidente che il colera si contagiasse.



Insomma la Chiesa, fin dai tempi del Vangelo, sa che il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Il riposo rituale ebraico richiamava il riposo di Dio dopo il compimento della creazione: compimento nel quale Dio si compiace con sguardo di immenso amore. Nel momento in cui l’arcivescovo di Milano, e non solo, ha sospeso la celebrazione delle messe per prevenire il possibile contagio e la diffusione del coronavirus, bisogna vivere questa momentanea sospensione guardandola con lo sguardo di Dio che guarda la sua creazione compiuta e “vide che era cosa buona”. Viviamola con lo sguardo del Padre che ha cura delle sue creatura e le ama sopra ogni cosa. Nella Messa il centro sono il corpo e il sangue di Cristo che elevano a dignità divina l’umanità: preservare le persone da un contagio, collaborare alla prevenzione, è un modo di celebrare lo stesso Mistero, magari valorizzando altre strade per essere intimi con Dio: per esempio quella della Comunione spirituale o quella di unirsi in preghiera al tocco delle campane, come ha chiesto ai suoi fedeli il parroco di Castiglione d’Adda, attraverso un audio mandato via WhatsApp.



Rinunciare alla Messa è anche un modo per sentirsi più vicini a coloro che feriti da situazioni particolari già normalmente non possono accedere al Sacramento e per poter provare quel Desiderio ardente di unione col Signore che dovrebbe animare ogni Eucarestia, ma che a volte è un po’ soffocato dall’abitudine e dalla frenesia. In questo momento di forzata immobilità, di pausa determinata dall’emergenza, possiamo ritrovare gli spazi e i tempi dell’orazione perché, proprio in questi istanti di paura e di presenza della fragilità umana, possiamo vivere la preghiera come unione con il prossimo. Una processione – quella della quale qualcuno lamenta l’assenza – non è che il simbolo del cammino dell’umanità dietro a Gesù, a Maria, ai Santi. E questo cammino è sempre una via d’amore e dolore.

Questi giorni di emergenza a causa del coronavirus possono farci idealmente procedere proprio in quel cammino assieme, annullando ogni differenza di razza, di religione, di lingua. Il coronavirus come altri malanni è un rischio per tutti. Quando si è nella precarietà si ha bisogno di ritrovarsi uniti contando sulla solidarietà e sul superamento di dissidi irrilevanti facendoci apprezzare davvero il senso della fraternità.

Siamo di fronte al diluvio universale e siamo chiusi nell’arca: come i discepoli chiusi nel Cenacolo, siamo pieni di paura e spavento. È il momento in cui Gesù entra con la sua luce e dice: “Pace a voi” .

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