Questa è una cronaca o forse una fotografia dal fronte, tra donne e uomini dedicati ad oltre 300 pazienti affetti da Coonavirus: siamo in un ospedale lombardo che da fine febbraio è stato stravolto per adeguarsi all’alta marea che lo ha invaso. Non è più quello di prima.
I nuovi pazienti sono stati dislocati in sei reparti: pronto soccorso, infettivi, pneumologia e in altri tre svuotati per ospitarli. Quattro rianimazioni accolgono chi è intubato e attaccato al respiratore.
Un gran numero di nuovi infermieri è stato appena assunto, con procedura insolitamente urgente; per molti è il primo impiego, da come parlano vengono da lontano. Medici e specializzandi affrontano scenari sconosciuti. Altri, volontariamente hanno cambiato mansione o addirittura ospedale per venire qui, vogliono contribuire personalmente, mettersi in gioco. La realtà fa paura, ma insieme affascina. Il senso della professione medica è di essere accanto al paziente, di mettere mano. E qui si vede.
La giornata inizia con il briefing tra i quasi venti anestesisti consulenti in questi reparti: anziani e giovani a inizio carriera, tutti in divisa azzurra, cappellino, guanti e mascherine, distribuite con parsimonia perché limitate. Il clima è da missione comune, c’è molta concordia. Si capisce subito chi è reduce dal turno di notte e chi invece è fresco, appena arrivato. Si stampano dai computer gli elenchi dei pazienti, sono sei-sette pagine fitte con nomi e caratteristiche. Chi li ha seguiti nella notte legge ad alta voce i bollettini. Chi prende servizio ascolta attentamente, prende nota o commenta. È incredibile: quasi tutti conoscono quei nomi, hanno presente il volto e la storia. È il loro pane quotidiano. Si segnalano età e patologie pregresse, peso, reazione o passività, si commenta il dialogo al cellulare con i famigliari, il pianto, la paura o la speranza di guarire, le parole attraverso le mascherine, i parametri, gli esami. Quello che va fatto oggi.
Ogni scambio di consegne è un verdetto: due exitus nella notte, altri ieri sera rantolanti e terminali questa mattina respirano meglio e comunicano; hanno voglia di vivere ancora. Cinque nuovi si sono aggiunti nella notte: quattro dal Pronto soccorso e uno da un lontano ospedale ormai saturo; trasferito in elicottero, in una scatola di plastica trasparente con due oblò, per il contenimento biologico, per non contaminare l’equipaggio. Di ognuno si discute la terapia e si aggiorna. È una malattia nuova e non ci sono protocolli validati; si applicano cure empiriche basate sull’esperienza propria o sulla letteratura. Una situazione mai vista.
Dopo le consegne si beve un caffè alla macchinetta e ci si avvia a gruppi di due o tre nei diversi reparti. Qualcuno prende il cellulare delle urgenze. È un esercito che risponde a una chiamata.
Arrivo con una giovane dottoressa al reparto infettivi: i pazienti sono in camere doppie, li osserviamo dalla finestra del corridoio. Stesi sul letto, immobili; controlliamo come respirano, se c’è affanno o compenso. Situazioni diverse: dai semplici occhialini al naso, alla mascherina con diversi flussi d’ossigeno, sino alla C-pap, una specie di casco da astronauta di plastica trasparente collegato a due tubi che soffiano ossigeno a pressione per raggiungere gli alveoli polmonari tappati dal virus.
Chi lo indossa deve sopportare una situazione di estremo disagio: il rumore continuo dell’ossigeno che sbuffa non permette di sentire il mondo esterno. Chiuso dentro, “locked down”. Isolato per giorni, anche sei o sette, solo con il suo terrore di non farcela. Qualcuno è preso da crisi di panico e tenta di toglierselo: va sedato, valium o morfina. Dormire è una fatica.
Lì dentro il tempo e i pensieri diventano tortuosi, non scorrono. Leggiamo i parametri che le infermiere hanno scritto su fogli appesi ai vetri, controlliamo i numeri dei monitor: i loro valori predicono vita o morte. Le infermiere sono dentro nell’acquario: astronauti bianchi con visiera e occhiali protettivi, ma soprattutto esseri umani che si prendono cura; li lavano, gli cambiano le flebo, gli servono la colazione, aprono, momentaneamente, il casco. Soprattutto parlano, rispondono a domande da ore trattenute. Chiamano i parenti al cellulare o fanno da tramite. La loro presenza vince la solitudine.
Ci bardiamo anche noi, seguendo le procedure scritte: un primo paio di guanti, le soprascarpe, poi la mascherina FFP2, la cuffia, gli occhialoni, la tuta bianca con il cappuccio, un altro paio di guanti. Entriamo e finalmente quei corpi abbandonati ridiventano persone, non solo ologrammi dietro il vetro scuro. Parliamo con loro.
Tutti sembrano sollevati nel vederci: buongiorno dottore o un semplice pollice alzato con fatica. Ovunque riconoscenza e fiducia. Si affidano chiedendo di essere trattati come il padre o la madre e questo accade davvero. Volti stravolti e stanchi, passivi o con un sorriso forzato. Qualcuno migliora e si merita la libertà. Passa dal casco alla mascherina, può anche alzarsi dal letto, almeno per andare in bagno. Per due è il giorno della dimissione: il loro sorriso commuove, sono euforici, anche se con affanno. Uno tornerà in quarantena a casa, l’altro in convalescenza in un ospedale dedicato. Per pranzo mangiamo la pizza che un panificio ha regalato ai sanitari per ringraziarli del gran lavoro: siete i nostri angeli, recita poco originalmente ma sinceramente il biglietto.
Nel pomeriggio chiamano da un reparto per un paziente che non ce la fa più. Il curante vorrebbe farlo intubare, i parametri sono insostenibili, respira come un mantice nonostante il casco da 8 giorni. Due medici si consultano, sarebbe facile dire di sì, ma non sono convinti e si bardano, venti minuti buoni. Poi entrano e lo vedono, gli parlano. È giovane, non vorrebbero intubarlo perché intuiscono uno spiraglio. Lo motivano. Mi commuovo nascostamente sentendo come parlano e spiegano. Lo trattano da amico, decidono di cambiarlo di reparto per un controllo più stretto.
Arriva una chiamata dal Pronto soccorso, un uomo di 70 anni è sempre più affannato, gli spieghiamo, gli chiediamo collaborazione perché necessita di un casco per respirare. Lo prepariamo, poi ci pensa un infermiere già dotato di protezioni. Così fino alle otto di sera. Chiamate su chiamate. Prelievi di sangue, controllo di esami e parametri. La giovane dottoressa è provata, in ascensore mi parla delle sue bambine piccole, le hanno telefonato per dirle che il pacco di Amazon è arrivato, loro e il papà l’aspettano per aprirlo. È la cucina delle bambole.
Saluto tutti mentre arrivano quelli della notte e di nuovo un lungo scambio di consegne, nuovi commenti, nuove speranze. Esco, il freddo della sera contrasta con gli alberi fioriti. Mi giro: il grande cubo dell’ospedale con le sue luci tutte uguali sembra una placida creatura. Guardo i piani, penso a chi continua la sua battaglia lì dentro, mi immedesimo con loro, spero con loro, prego per loro. Gli voglio bene.