Fino a qualche settimana fa, il Covid-19 (coronavirus) era guardato con curiosità e preoccupazione, ma in ogni caso come qualcosa di lontano, così remoto che non ci vedeva direttamente coinvolti, ma adesso che ci ha raggiunto, che è qui da noi, cosa possiamo dire?

Fin dalla notizia dei primi casi in Lombardia, abbiamo assistito alle reazioni più varie: da minimalismi eccessivi ad allarmismi catastrofici. Siamo stati bombardati da una miriade di informazioni e dati, più o meno attendibili, che da una parte derubricavano il problema a semplice sindrome influenzale e dall’altra prefiguravano disastrosi quadri pandemici dagli esiti incerti.



In questo confuso scenario è difficile, per chi non è esperto in materia, capire realmente i termini del problema, la sua dimensione e portata e forse è più facile schiararsi da una parte o dall’altra.

Sicuramente siamo davanti ad una circostanza nuova e complessa, estranea all’uomo di oggi che ha tutto apparentemente sotto controllo, per la quale non eravamo pronti. Sicuramente questa situazione ci accompagnerà ancora per diversi mesi e non si troveranno soluzioni efficaci nel breve termine.



In sintesi, ciò che possiamo osservare è un sentimento di smarrimento, di preoccupazione e di paura, sia personale che collettiva, anche per le ripercussioni economico-sociali che già iniziano a vedersi sul sistema paese e che si prefigurano ancora più serie.

Senza alcun dubbio, le azioni di contenimento dell’epidemia messe in atto più o meno tempestivamente sono state e sono indispensabili. Rimane il dolore per i decessi, ma è confortante vedere che molti dei pazienti inizialmente infettati sono guariti e tornano a casa, come molti pazienti infettati hanno un decorso rapido e positivo, senza dover ricorrere alle cure ospedaliere.



Ma cosa rimane?

Molto interessante l’editoriale di Beppe Severgnini sul Corriere della Sera del 22 febbraio, che documenta come non siamo più abituati all’incertezza, all’imprevedibile, come se ciò di cui oggi possiamo disporre ci avesse fatto dimenticare queste categorie.

Sempre Severgnini si domanda e ci domanda “Chissà se impareremo qualche cosa da quanto sta accadendo. Per esempio se ricorderemo che siamo esseri fragili”.

Tale domanda è particolarmente urgente per me, come persona e come medico che tutti i giorni ha a che fare con malati oncologici ai quali la diagnosi imprevista e imprevedibile giunge spesso a sconvolgere la normale conduzione della propria vita.

A volte si affronta la malattia con determinazione e coraggio, forti dei progressi della medicina e dell’efficacia delle terapie di cui si può disporre,  altre volte si può essere preda di una paura paralizzante e smettere di vivere. Sono momenti in cui una persona è improvvisamente spogliata delle proprie certezze e tutto è rimesso in discussione. Sicuramente il tempo può stemperare questa drammaticità e uno riprende la normale quotidianità, ma spesso il tempo per tornare alla normalità non c’è.

Ma come questo può non essere una sconfitta, che annienta o riduce le attese sulla vita?

La settimana scorsa ho avuto il privilegio di andare a trovare un caro amico affetto da un tumore cerebrale da 4 anni che non risponde più come dovrebbe alle terapie. Doveva essere una visita veloce, inserita nella fitta giornata, per incoraggiarlo e confortarlo. Invece è stata, nella sua drammaticità, una grande occasione. Per tutta la durata della visita, in cui abbiamo parlato di tante cose, lui mi diceva con dolore, ma con grande serenità e solidità, che la situazione è seria e le strade poche. Mi ha colpito come mai abbia avuto una parola di rammarico su ciò che era e adesso non è più, su quello che la malattia gli ha tolto e non gli permetterà di fare. Anzi, più di una volta mi ha detto quanto sono stati duri, faticosi, ma belli e pieni di vita questi 4 anni. È giovane, laureato in fisica, una persona molto concreta e non sentimentale e, credetemi, era pienamente lucido e orientato nel tempo e nello spazio.

Ero attratto e affascinato da questo amico e, con il cuore traboccante di dolore e gratitudine, sarei stato con lui tutta la sera, quando spesso, in queste situazioni, non si vede l’ora di andar via, di tornare alla “propria realtà”.

Ma come è possibile?

Alla fine della visita, dopo avergli raccontato dei miei figli e di tutte le fatiche e preoccupazioni che mi danno, lui mi ha scritto un messaggio: “spero che i tuoi figli possano trovare anche loro l’amicizia cristiana che mi regge di fronte a tutto ciò, la chemio che non funziona più ecc., quell’amicizia cristiana che mi fa essere ancora appassionato alla fisica oggi come 20 anni fa”. Ho provato un’invidia enorme nel vedere come per lui l’esperienza cristiana sia qualcosa di reale e decisivo, la fede sia una forma nuova di conoscenza della realtà, bella o brutta, desiderabile o meno, qualunque situazione diventi la modalità con cui il Mistero lo preferisce e continua a preferirlo.

Si può non aspettare che le cose si sistemino, che una circostanza passi, che tutto torni sotto controllo, si può vivere con consapevolezza, pienezza e pace ciò che è dato da vivere adesso; questo è possibile solo se nella nostra vita è presente un amore che lo rende ragionevole.

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