Stiamo vivendo un’inedita quotidianità a chilometro zero, o meglio a duecento metri, il massimo consentito per i movimenti personali. Sono tempi di guerra, con relative restrizioni alle libertà, alle produzioni. È la nuova economia shut-in-economy, una specie di autarchia riveduta e costretta, che si riflette nel primato dell’on-demand, i consumi ordinati e ricevuti in casa, a surrogare le distanze imposte dal virus. Proprio questa fase di “allontanamento sociale” è stata studiata dall’Imperial College di Londra, che sta immaginando le cicatrici che lascerà, e l’ha proiettata sugli scenari prossimi venturi, dove un “ritorno alla normalità” sembra perlomeno incerto, se non del tutto impossibile. “Effettivamente il dopoguerra del Covid-19 non potrà essere più come prima” conferma Silvio Scanagatta, ordinario senior di Sociologia all’Università di Padova.
Perché, professore?
Bastano alcune osservazioni. Il buon senso ci rende consci che il consumismo sfrenato, che molti ritenevano immutabile, ora rimette in gioco le classi sociali e i loro rapporti. La crisi di rappresentanze, associazioni, sindacati, partiti sta ricevendo colpi forse mortali. Non si può sapere se vi saranno altri mediatori sociali dei conflitti e chi avrà maggiori potenze contrattuali. Le singole persone cominciano a capire che si erano illuse molto di appartenere a: sarà tutto da rivedere.
Può citare un esempio?
La vita quotidiana è condizionata da quintalate di oggetti la cui utilità, chiusi in casa, è sempre più incerta: un pur breve arresto domiciliare rende incerti i valori di riferimento sull’uso e il significato della comunicazione. Diventa sempre più evidente che la comunicazione smodata, senza valori significativi, è una barca senza timone. La socialità in tempo di coronavirus diventa pericolosamente rischiosa se non avviene tra persone e gruppi socialmente sani. Mancano molti fondamentali per sanificare sé e gli altri nelle relazioni sociali, nell’alimentazione, nel lavoro, nella felicità, nell’innamoramento, nell’amore, nell’accumulo di ricchezza e via dicendo.
Esistono rimedi?
La famiglia può essere, come vuole la globalizzazione, l’unico spazio di consumo intelligente, anche se è monopersonale, ma entra in crisi sullo scambio di se stessi con gli altri. Crescerà la difficoltà ad essere uomini, donne, bambini, adulti, vecchi, giovani, cioè a conquistare il proprio spazio personale vitale, l’identità. In queste settimane siamo costretti a guardare in faccia i nostri vicini di vita quotidiana, specialmente il vicino più vicino, noi stessi. Se il capitalismo della globalizzazione riprenderà baldanzoso nella realizzazione di uno sviluppo senza fine di produzioni, la propensione, pur faticosa, del ritorno all’antico sarà sicuramente la più diffusa e conservativa. La paura di perdere privilegi diventerà l’energia più forte nell’operazione di negazione del cambiamento.
Ma allora si ritornerà allo status quo ante?
In realtà, se il sistema economico metterà in crisi equilibri internazionali, caratteristiche dei prodotti attesi, valore del lavoro, rapporto tra ricchi e poveri e soprattutto qualità del benessere, allora i parametri salteranno facilmente: non possiamo che aspettarci una riorganizzazione (speriamo non violenta) dell’organizzazione dei rapporti. In questo scenario nessuno potrà prevedere una metamorfosi della famiglia, delle aggregazioni, dei partiti, delle relazioni amicali, dell’innamoramento e dell’amore.
Cambiamenti o evoluzioni?
Nessuno schema passato potrà essere invocato come perfetto, perché mai nella storia il singolo individuo, perfino se povero, ha avuto a disposizione tanta energia, tante macchine, tante distanze, tanta solitudine e tanta infelicità come oggi. Il dopoguerra del Covid-19 non sarà di pace, ma uno scontro epocale tra le classi che hanno gli strumenti per combattere ogni giorno con queste macchine e coloro che non hanno la cultura necessaria per farlo.
Nel frattempo, restiamo in casa…
Restare chiusi in casa aiuta a trovare una dimensione intima della vita che sembrava ormai perdersi nelle mode del trekking solitario. Ma la solitudine dell’isolamento ha anche una dimensione d’intimità con se stessi in cui, salvo il disturbo del bombardamento della rete, si può cominciare a pensare a che cosa accadrà dopo la fine di questa strana guerra.
Quali scenari riesce a immaginare?
Una prima ipotesi è molto leggera. Si svilupperà il lavoro smart, processo che era già iniziato, ma le imprese non saranno ancora attrezzate appieno a questo modello di decentramento produttivo a Km zero. Si prenderanno un po’ più seriamente i servizi alle famiglie, nella logica che senza il capitale umano le fabbriche chiudono sia nei paesi poveri che in quelli ricchi. L’attuale modello di famiglia resterà tuttavia traballante, perché ancora fortemente legato ai diritti e ai privilegi e non ancora al mix tradizionale tra doveri e privilegi. Per i giovani il modello consumistico precedente resterà ancora una palla al piede, perché l’ubriacatura del recente passato continuerà a far loro preferire la ricerca della spartizione della ricchezza prodotta da altri, piuttosto che la sfida sulla capacità di produrne. In parte questa sfida oggi è già capita da una parte di loro, ma in genere prevale la difesa dei diritti e il rinvio allo stato del dovere di garantire il benessere a tutti, indipendentemente dallo sforzo proporzionato di produrre ricchezza. Continuerà lentamente a crescere non solo la crisi dei partiti, ma soprattutto la difficoltà di uno Stato che, specie nel rapporto con i rappresentanti degli interessi (lobby e sindacati), vuole costruire benessere distribuendo ricchezza piuttosto che incentivandone la crescita. Lo Stato rappresentativo continuerà a essere inadeguatamente centralizzato per evitare che si passi da un principio di uguaglianza aritmetica a una visione di individui che devono produrre secondo le loro capacità e accettare che la loro ricchezza sia solidale con chi ha minori capacità.
Un’ipotesi “leggera” che sembra in realtà abbastanza pesante. La prossima?
C’è un secondo scenario molto più radicale. Il cambiamento avverrà soprattutto partendo dal consumatore. Oggi il consumatore è schiacciato da una quantità di prodotti che spesso hanno un’obsolescenza velocissima. Il risultato è che il benessere garantito dagli Stati ricchi è prevalentemente quantitativo (il peggio è nei paesi meno ricchi o poveri) e scarsamente capace di garantire la qualità della vita che solo una parte delle classi più ricche e culturalmente preparate riesce a permettersi. Il rischio che il concetto stesso di Stato moderno (democratico e tanto peggio se autoritario) resti uno stereotipo pre-moderno, incapace di cambiare, fa sì che cresca la pressione dei ceti esclusi dalla qualità della vita. L’inquinamento globale, la in/sanità di molti oggetti/macchine di uso comune, di molto cibo nei paesi più ricchi, di molte regole/norme/stereotipi nella vita quotidiana, stanno mettendo a rischio tutti i sistemi politici e, di conseguenza, lo stesso sistema capitalistico. Nessuno Stato attuale può reggere l’impatto dei bisogni.
L’Italia, essendo stata tra i primi territori al mondo a iniziare la guerra al Covid-19, può essere un laboratorio attendibile?
Il sistema economico è oggi il veicolo primario del consenso culturale e politico: sono le merci che trasmettono i valori. Con il Covid-19 si comincia a vedere bene che l’Italia è la contea di confine del mondo. Nell’Impero Romano gli imperatori non restavano in vita se non gestivano al meglio ciò che accadeva nelle contee di confine. Nella guerra al Covid-19, a quanto pare, tutti stanno incitando l’Italia perché noi, avendo l’unico sistema statale di vera sanità gratuita per (quasi) tutti – a parte la Lombardia che sta pagando cara la pur parziale privatizzazione -, e avendo una millenaria predisposizione a immaginare culturalmente il futuro, siamo il vero laboratorio dove studiare il futuro.
Con la famiglia al centro?
La famiglia è un’istituzione già esplosa. Mezzo secolo fa lo psicanalista Cooper intitolò il suo libro La morte della famiglia, e fu buon profeta perché oggi la famiglia è tutta un’altra cosa. Non aveva tuttavia previsto che sarebbe prontamente evoluta in una struttura che potremmo chiamare un’azienda di consumatori, in cui l’anima delle persone ha spesso bisogno della bombola di ossigeno per sopravvivere. Un virus che mette in crisi non solo i valori e l’affettività, ma anche il sistema dei consumi, potrebbe facilmente trascinare con sé anche le istituzioni più ampie. Lo Stato moderno, come abbiamo visto, ha bisogno di rianimazione costante: non basta curare le monete e le Borse, come insegna ormai l’Europa visibilmente in crisi di legittimazione”.
Quindi il virus ha catalizzato processi già in corso?
Si ha netta la sensazione che la guerra del Covid-19 stia accelerando un processo di crisi soprattutto economica e poi politica, con tutte le conseguenze che si possono intuire. La crisi economica può essere forse spiegata rispondendo ad alcune domande: è legittimo oggi chiedersi se una rivoluzione stia nascendo perché bisogna passare a una produzione in cui il prezzo delle merci sia legato anche e soprattutto alla capacità di produrre salute e benessere ai consumatori? Quanto tempo ci vorrà per passare dalla semplice valutazione di qualità nei processi produttivi a una più articolata valutazione del modo in cui si usa quella merce? Cosa succederebbe se le automobili potessero essere vendute e usate solo dove vi è un’aria respirabile? Costerebbero solo molto di più o richiederebbero anche una profonda rivoluzione capitalistica?
Professore, sta delineando un futuro post-Covid-19 più apocalittico che integrato…
Non è difficile pensare che la guerra che stiamo vivendo ci porterà a una profonda privazione in molti campi. Crescerà la paura degli altri. Aumenterà la sfiducia e la ricerca degli untori in tutti i campi. Saremo sempre meno disposti a legittimare gli stati in cui viviamo. Il mito dell’onnipotenza della scienza non reggerà al fatto di scoprire che la medicina non è una scienza esatta, ma un uso intelligente dei mezzi offerti dalla scienza, se e quando ci sono.
Quali i mali peggiori?
La solitudine già oggi è il malessere/malattia più diffuso nelle nostre società. Se ci chiudiamo in ambiti ancora più ristretti, ci condanniamo al peggio. Vi è tuttavia uno strumento umano, vecchio come il mondo, che forse ci eviterà guai peggiori: si chiama contrattazione. Se ci guardiamo intorno vediamo persone poco capaci di contrattazione, più educate a nascondere, camuffare, ignorare, imporre, fare i furbi, prevaricare, violentare, forzare. La civiltà è nata e può vivere solo se il contratto a prestazioni corrispettive si basa su un visibile soddisfacimento di interessi reciproci.
Superare una società basata sullo stereotipo degli interessi e dei diritti come imbrogli non sarà facile. Ma si può fare.
(Alberto Beggiolini)