Perché in Italia si muore di più per coronavirus? I giorni passano e gli aumenti esponenziali di vittime e contagi piuttosto non si frenano: con l’ultimo bollettino della Protezione Civile il dato è aumentato fino a 7985 persone con tampone positivo al Covid-19 e in tutto 463 morti in Italia dall’inizio dell’emergenza. Eppure quei numeri continuano a far discutere con diverse domande – e fake news purtroppo – che si affollano ogni giorno che passa e ogni bollettino che viene presentato dalle autorità nazionali: se da un lato come gli esperti continuano a ripetere, il dato dei contagi è addirittura sottostimato perché in molti casi il coronavirus si presenta senza sintomi e può anche passare prima che uno se ne possa accorgere, il ragionamento sui decessi merita un ragionamento ben più approfondito. Le misure prese dal Governo negli ultimi giorni vanno nella direzione di contenere il più possibile il virus ma forse – dicono alcuni esperti – andava anticipato di qualche giorno per evitare una curva di aumento che si sta rilevano proprio ora: di contro, vi è la possibilità che l’estensione delle misure possano arrivare a tutta Italia se i contagi non diminuiranno dopo i primi effetti del Dpcm sulla “zona arancione” della Lombardia e delle altre province coinvolte. Ma resta la domanda: perché da noi in relazione ai contagi, abbiamo più morti rispetto al resto d’Europa? I motivi possono essere tanti, legati soprattutto a vizi di forma e di raccolta dei dati che arrivano da altri Paesi extra Ue e della stessa Europa: ieri in conferenza stampa, il Presidente dell’Iss Silvio Brusaferro ha spiegato nell’ultima conferenza stampa che suddividendo i decessi per fasce d’età e calcolando le relative letalità apparenti «il dato del nostro Paese è in realtà migliore (ossia inferiore) a quello della Cina», nonostante la percentuale complessiva faccia intendere l’esatto contrario. La letalità “apparente” è salita in pochi giorni dal 2% all’attuale 4,96%, questo perché?



MORTI E CONTAGI IN ITALIA: LA REPLICA DEL PROFESSOR REZZA

«Se andiamo a stratificare per età noi abbiamo dei tassi confrontabili e più bassi della Cina: noi abbiamo una popolazione molto anziana, infatti l’età media dei decessi è superiore agli 80 anni», ha spiegato oggi in conferenza stampa alla Protezione Civile il professor Giovanni Rezza, ribadendo poi subito dopo «nel momento in cui si vanno a tamponare le persone sintomatiche è chiaro che si restringe il denominatore a persone che hanno sintomi e che vengono ospedalizzate. Il tasso di letalità sembra più alto di quello che è: non cambiamo per abbassare i tassi, è una strategia del tampone che è assai difficile da fare in tempi utili e quindi si è deciso di fare tamponi solo su sintomatici, fatto per massimizzare i vantaggi». La popolazione anziana e quel “denominatore” cambiato dall’aver fatto meno tamponi nelle ultime settimane: i dati si rispecchiano in questi due fondamenti e osservando gli ultimi numeri al 9 marzo la conferma arriva dal fronte delle età “medie” dei decessi. Borrelli ha spiegato in conferenza stampa come l’1% sia riferibile alla fascia 50-59 anni, 10% su quota 60-69 anni, 31% in quota “70”, 44% in fascia “80”, 14% fascia tra gli ultranovantenni. A tutte queste considerazioni bisogna aggiungerne un’altra cui giocoforza si sta assistendo e verso la quale sono tesi tutti gli sforzi di Governo e Regioni: da un lato il minor numero di tamponi aumenta la mortalità “apparente”, ma resta anche il fatto che aumentando i casi il sistema sanitario diviene sempre più sotto stress e questo può comportare purtroppo meno capacità di intervento in tempi rapidi o carenze di personale proprio per contagi anche nei sanitari stessi. In questo modo l’invito a rimanere a casa il più possibile va nella giusta direzione: serve per dar tempo e fiato al sistema sanitario di provvedere a tutti i casi con la dovuta cura e cautela, facendo passare si spera in poche settimane questa tremenda tempesta chiamata coronavirus.



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