All’indomani dell’adozione del contrastato e discusso decreto anti-coronavirus del governo che ha sostanzialmente messo in quarantena l’intera Lombardia e altre 14 province del Nord Italia, la contabilità dell’epidemia non accenna ancora a dare segnali di debilitazione: secondo i dati aggiornati della Protezione civile, i casi aumentano a 7.375, con 6.387 malati (1.326 in più rispetto al giorno precedente), 366 decessi (+133, di cui 113 nella sola Lombardia) e 622 guariti. E secondo il presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, “al momento non è possibile fare alcuna previsione di picco”. Quindi, cosa dobbiamo aspettarci? A cosa mira il decreto del governo? “Il significato complessivo del decreto – spiega Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano – è quello di indicare una riduzione consistente dei contatti, chiedendo una responsabilizzazione dei cittadini, che si devono assolutamente rendere conto che una quota di contatti, naturali e ineliminabili, vanno comunque ridotti in misura rilevante”.
Che cosa ci dicono le curve epidemiologiche?
C’è una diffusione che va oltre i focolai iniziali e che necessita uno sforzo ulteriore e importante di responsabilizzazione. È stato fatto un richiamo a tutta la nazione, legato al fatto che si vedono comportamenti diversi, mentre invece occorre un’auto-responsabilizzazione generale. In questi momenti di emergenza c’è ancora una fetta di persone che non mostrano un’adeguata coscienza civica, bensì egoismo e irrazionalità.
Le restrizioni adottate dal governo sono dettate da ragioni scientifiche adeguate?
Per ogni virus e ogni situazione non c’è mai una certezza scientifica, ma la revisione di studi ed esperienze passate rispetto alle epidemie su scala simile a quella influenzale conferma di utilità – anche se non elevatissima, ma oggi non ci sono alternative per poter far fronte a questa situazione – l’azione di contenimento. Non abbiamo altre armi. E le singole azioni contenute nel decreto sono mirate a una sostenibilità dell’insieme e per un certo periodo, perché non si può bloccare tutto.
Fino a pochi giorni fa i contagi raddoppiavano ogni 2,6 giorni, ora si parla di 2,4 giorni. È questo trend ad aver spinto il governo ad assumere le decisioni che ha preso con l’ultimo decreto?
Ogni epidemia non controllata o poco controllata come può essere questa ad oggi si sviluppa in modo esponenziale: con un R0 di due persone è chiaro che le dimensioni vanno a crescere. È il segno di una fase espansiva probabilmente che va analizzata Regione per Regione e il risultato finale è la sommatoria di più curve.
Non si parla più di zone rosse e zone gialle, ma si è divisa l’Italia in zone di Fascia 1, Lombardia e altre 14 province a maggiore attenzione, e in zone di Fascia 2, il resto del paese. Anche questa suddivisione è dettata da ragioni scientifiche plausibili?
Plausibili nel senso di stringenza diversa in fatto di azioni e di restrizioni. La zona rossa aveva anche un significato inquietante, come blocco fisico. Ora non si prevede un blocco fisico. Il significato complessivo del decreto è quello di indicare una riduzione consistente dei contatti, chiedendo una responsabilizzazione dei cittadini, che si devono assolutamente rendere conto che una quota di contatti, naturali e ineliminabili, vanno comunque ridotti in misura rilevante.
La fuga in massa da Milano dopo l’annuncio del decreto rischia davvero di facilitare un’ampia propagazione del virus anche nel Sud?
No. Che possa verificarsi una diffusione sì, ma non ritengo in modo massivo. Certo, andare tutti insieme allegramente, stipati in quel modo, non è stata una cosa opportuna.
Le misure saranno in vigore fino al 3 aprile. Dovremo aspettare almeno fino a quella data per misurarne l’efficacia?
Ritengo che sarà necessario rimodularle sulla base delle evidenze e dei risultati che via via emergeranno. Diciamo che possiamo ragionare sui 5 giorni dell’incubazione, dunque i primi riscontri li avremo nel fine settimana.
Non dovessero funzionare o dare i risultati sperati, che cosa si potrà fare in più?
Si chiudono i treni, le metropolitane, si fa un’azione più drastica di contenimento come è stata fatta a Wuhan, in Cina.
Con queste misure possiamo vincere la guerra contro il Covid-19?
A mio avviso sì. Ma dobbiamo sapere che sarà una battaglia lunga, che non avrà una soluzione immediata.
A questo punto, di fronte a questi numeri e a questi provvedimenti, si può ancora dire che il coronavirus sia poco più che un’influenza normale?
No, come ho sempre detto non è la stessa cosa. La malattia ha un basso rischio specifico, dalla malattia si guarisce dopo un passaggio piuttosto frequente in terapia intensiva e questo vuol dire che il Covid-19 causa polmoniti virali primarie con una percentuale ben superiore dell’influenza tradizionale. E questa stagione influenzale, con alcuni picchi di polmoniti, può aver dato un contributo “nascosto” all’inizio dell’epidemia.
Può essere che il ceppo italiano del virus sia diverso da quello cinese e più aggressivo?
Assolutamente no, non c’è una differenza genetica.
Cosa dobbiamo aspettarci adesso?
Due o tre mesi di battaglia con la speranza di riuscire a ottenere una mitigazione che diminuisca l’impatto, cioè la velocità e la frequenza dei casi giornalieri, tale da poter essere sostenuta in modo adeguato dalle strutture del Servizio sanitario nazionale.
Le strutture sanitarie, specie in Lombardia, sono sotto stress. Fino a quanto potranno reggere?
Difficile dare un’indicazione precisa. In Lombardia comunque è in atto una riorganizzazione e riconversione degli ospedali: ci sono ancora margini di tenuta.
Che cosa devono fare i cittadini, che cosa può e deve fare ciascuno per cercare di contenere la diffusione del contagio?
Ridurre il più possibile i contatti sociali: è brutale dirlo, ma è la linea da seguire.
(Marco Biscella)