“In questi giorni si decidono le sorti della partita contro la diffusione del coronavirus”. Nel giorno in cui arriva la notizia che la chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma è stata chiusa “per misure precauzionali” e “fino a nuovo ordine”, che a Milano due medici del Policlinico, un infettivologo e un neurochirurgo, sono risultati positivi ai tamponi per il virus Sars-Cov-2, e che in Friuli Venezia Giulia sono risultati positivi al test quattro nuovi casi, uno a Trieste e tre a Udine, il virologo Fabrizio Pregliasco, dell’Università degli Studi di Milano, pone l’attenzione su un aspetto cruciale: “Potremmo rischiare di aver già perso la prima opportunità: il controllo, perché le scintille rispetto all’incendio primario, il focolaio di Codogno, sono continue. È vero che il grosso della casistica è concentrato nella Bassa Lodigiana, ma sarà importante vedere quando e quanto verranno tamponati gli altri piccoli focolai, dove ancora sussistono molte possibilità, finché i casi rimangono pochi, di poter tracciare il percorso epidemiologico di ogni singolo paziente. La vera sfida si gioca lì”.



Sta emergendo un’altra novità: i quadri clinici gravi presentano una sintomatologia lenta, dalle due alle quattro settimane. Questo dato può cambiare lo scenario sui rischi di diffusione del contagio?

Vuol dire allungare i tempi di infettività, cioè di malattia. Di conseguenza anche la durata di ogni singolo caso e un peggioramento delle modalità di controllo.



Potrebbe, insomma, rendere necessario dilatare nel tempo le misure di prevenzione?

Esatto.

Secondo il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, i casi positivi sono destinati ad aumentare. Tenendo presente che ogni paziente positivo può trasmettere il contagio ad altre 2 persone in media, dobbiamo aspettarci più quarantene e più ricoveri?

Sicuramente siamo ancora in una fase di crescita dell’infezione. Le misure di sicurezza e le quarantene, per poterne valutare gli effetti, richiedono ancora una settimana e più. Solo dopo si potrà immaginare un effetto di riduzione dei contatti e delle situazioni di rischio, anche perché con un tempo medio di incubazione di 5 giorni noi stiamo vedendo oggi quello che è successo la scorsa settimana.



In Lombardia, secondo Massimo Galli, primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, si sta trattando “una marea montante di pazienti impegnativi”, mentre l’assessore Gallera ha dichiarato che saranno richiamati in servizio infermieri e medici in pensione. Il sistema sanitario è sotto stress? E quanto può reggere?

Richiamare medici e infermieri in pensione è una soluzione, perché possono svolgere attività complementari, lasciando così il personale in funzione in prima linea nella lotta al Covid-19. Già oggi dai singoli ospedali arrivano le richieste di mettere a disposizione spazi per la terapia intensiva. È vero che la malattia non è grave, ma anche la quota del 5% che guarisce passa da un percorso di riabilitazione impegnativo. Il vero nodo del Covid-19, come di ogni pandemia, è la quantità: bisogna evitare che non ci siano troppe persone colpite contemporaneamente, bisogna mitigare, far sì che ci sia una diluizione nel tempo dei casi. È ipotizzabile che una quota rilevante venga colpita in questa prima ondata del contagio e che poi, come nelle pandemie influenzali del passato, si possa verificare anche una seconda ondata, che – diciamo così – “completa il lavoro”.

Ma questa seconda ondata quando potrebbe arrivare?

Tutto dipende da come si riesce a gestire la situazione. È possibile che possa anche diventare un andamento lento, prolungato nel tempo, senza alcun effetto d’urto.

La mortalità finora ha colpito pazienti anziani e già affetti da altre patologie gravi. Intanto però il paziente 1, il 38enne di Lodi, persona sana e sportiva, è ancora intubato e in gravi condizioni. È solo un’anomalia o questo caso ci dice qualcosa d’altro sul virus?

Anche i primi due cinesi curati in Italia, pur non essendo giovani come il paziente 1, erano poco più che sessantenni e anche loro hanno dovuto affrontare un lungo passaggio in rianimazione. Il Covid-19 presenta una maggiore propensione a determinare polmoniti virali primarie, legate a una diffusione più bassa del virus verso gli alveoli dei polmoni. Da qui discende la necessità di un’assistenza alla ventilazione nelle fasi acute, intanto che l’organismo reagisce.

Allo Spallanzani ieri tutti i test effettuati sulla famiglia di Fiumicino, dopo il contagio di una signora di 38 anni, sono risultati negativi. Come va interpretato questo screening?

In questi test, in via di standardizzazione, c’è sempre un margine di rischio, come in qualsiasi test, di falsi positivi e quindi proprio per questo motivo sono previsti, nella fase iniziale, dove il conteggio dell’infezione deve essere il più attento possibile, altri esami, un doppio test per garantire i due parametri fondamentali: la sensibilità, cioè la capacità di scovare i malati, e la specificità, vale a dire riconoscere i sani. Quindi bisogna prestare la massima attenzione, soprattutto in questa fase.     

Il Campus Biomedico di Roma ha ricostruito la mutazione che ha permesso al virus di essere trasmesso dall’animale all’uomo. Quanto può essere utile questa scoperta?

È fondamentale comprendere tutto l’aspetto genetico del virus, capirne l’effettiva reazione anche in termini di produzione di vaccini o di antivirali. Avere a disposizione più stipiti virali permette di vedere se c’è una stabilità o ulteriori variazioni sul tema, che quindi possono darci delle previsioni rispetto alla diffusione e alla durata dell’epidemia. Se il virus si adatta ancora meglio all’organismo che lo ospita, può creare ulteriori guai.

Fino a quando dovremo fare i conti con il Covid-19?

La Sars, che pure aveva una minore diffusività, ci tenne impegnati per un semestre abbondante. Se non si riesce a controllare le infezioni, la partita può durare anche oltre la primavera inoltrata. Dipende tutto dalla capacità di mitigare o di controllare.

(Marco Biscella) 

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