Chiedere scusa. Perdono sarebbe meglio, perché significa riconoscere anzitutto un dono tradito, e che il perdono è un regalo per trovarci puliti, senza turbamento. Ma anche scusa va bene.

Scusa per le parole sbagliate, per le parole vane, per le parole di troppo. Scusa per le parole non dette o dette male, per gli sguardi o le smorfie che hanno ferito, per le omissioni, la nostra responsabilità più grande e condivisa, in questo tempo di individualismo radicale e radicato, diventato abitudine, o peggio, diritto.



Chiedere scusa significa riconoscere che non si è soli, che si è in rapporto, che ogni nostra azione o inazione pesa e attacca e condiziona, significa sapersi fragili, a volte impotenti, e dunque realmente umani. Chiedere scusa senza sforzo, senza vergogna, anzi con liberante soddisfazione: perché si può sbagliare, si sbaglia sempre, sbagliamo tutti, consapevolmente o meno. Di solito sbagliamo non per fare del male, ma per superficialità, distrazione, meschinità. Ce ne accorgiamo, ma facciamo scattare la presunzione, l’orgoglio che ci vieta di cedere, di mostrarci docili e nudi, cioè veri.



Invece scusa è il gesto più naturale, desiderato e limpido per ripartire, ritrovarsi, rinascere. Che meraviglia se la debolezza è debole? Se non siamo onnipotenti, ma creature finite, eppur creature, volute, amate, scelte per essere qui e ora a lasciare un segno, fors’anche solo un atto d’amore.

E scusa vuol dire ti voglio bene, guardami con tenerezza, ne ho bisogno. Non è un atto buono, è un favore a se stessi.

In questo inizio di Quaresima che coincide con tante dolorose quarantene, il contagio della parola scusa è l’esercizio migliore per guarire da tanti mali che ci corrodono e fanno perdere vita. Se questo tempo è dato a chi crede non per sterili autoflagellazioni, o autodafé apocalittici, ma per purificarci, cioè per rimetterci a nuovo, chiedere perdono è il primo modo per cominciare un cammino. E Dio è lieto se scusa è l’inizio, con i fratelli, per poterci avvicinare a Lui.



Scusa è una delle tre parole che il Papa ricorda, dovrebbero tessere le relazioni più care, insieme a grazie e per favore. Scusa è la parola semplice che ha usato il Papa per riparare a un’intemperanza, per aver dato un cattivo esempio, ed era in mondovisione. Una parola che disarma la rabbia e le vendette, le blocca sul nascere, le dissolve quando si sono incancrenite. È potente come la cenere sul capo, e non è un gesto rituale, formale. Quando si prova, poi, ci si prende gusto, e diventa una buona abitudine, fa del bene.

Caro presidente Conte, ci pensi anche lei. Lei che si dice credente e frequenta i santuari. Quando si attaccano con approssimazione e per autodifesa medici e funzionari che danno l’anima in un’emergenza rara, con sprezzo del pericolo e sacrifici, si chiede scusa. Non “avete capito male”, o impersonalmente “una falla c’è stata”. Scusate, ho sbagliato, ho detto male, ho dato il cattivo esempio. Basta una riga in un’intervista, manco un comunicato, figurarsi la mondovisione.

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