E adesso tocca all’Italia. Non solo il coronavirus è arrivato, contagiando nel nostro paese 18 persone, di cui 16 in Lombardia e due in Veneto, ma ha anche fatto la prima vittima. Si tratta di Adriano Trevisan, 78 anni, deceduto nell’ospedale di Schiavonia (Padova). Non aveva avuto contatti diretti con l’estero ed era già ricoverato da una decina di giorni per precedenti patologie. Il principale focolaio si è rivelato essere Codogno (Lodi), dove un 38enne ha contratto il virus e si è presentato il 15 febbraio al pronto soccorso in presenza dei primi sintomi. Attualmente la sua condizione è grave.



Il ministero della Salute e la Regione Lombardia hanno messo in atto un piano coordinato: tutti i “positivi” sono stati trasferiti all’Ospedale Sacco di Milano, nel Lodigiano risultano “isolati” comuni per complessivi 30mila abitanti, è stata decisa la chiusura di scuole, uffici comunali, esercizi non di prima necessità, cancellate le manifestazioni pubbliche e sportive.



Quanto accaduto ieri in Lombardia presenta diversi punti poco chiari: la persona in condizioni più gravi, il 38enne di Codogno, risulta aver cenato quasi un mese fa con un amico tornato dalla Cina che però è risultato negativo ai test. Il periodo di incubazione del virus però è stato classificato di 5-6 giorni al massimo. Il Sussidiario ne ha parlato con Chiara Tassan Din, medico infettivologo dell’Ospedale San Raffaele Di Milano.

Come è possibile che invece siano passati 18 giorni?

La situazione è tuttora poco chiara e quelle che possiamo abbozzare sono solo ipotesi. Fermo restando che il periodo di incubazione potrebbe in realtà protrarsi fino a 14 giorni, i conti non tornano ancora. Ed è forse questo dato, più ancora della notizia del primo caso italiano, ad aver alimentato la preoccupazione questa mattina (ieri, ndr), preoccupazione che poi si è mantenuta con il riscontro di nuovi casi.



Secondo lei come si spiega?

Un’ipotesi è che la persona rientrata dalla Cina non c’entri direttamente o comunque faccia parte di un gruppo di soggetti rientrati dalla Cina che hanno trasmesso l’infezione ad altri pur in stato di completa asintomaticità. Dato questo plausibile, come è stato da subito ritenuto verosimile che una persona possa essere contagiosa anche prima di sviluppare i sintomi dell’infezione. Del resto questo avviene per molte malattie di natura virale.

Questo significa che il cosiddetto paziente zero, il contagiatore, è un’altra persona? Quanto può essere difficile individuarlo?

Sì, può essere così. Problematico dire quanto possa essere difficile individuarlo. Certo è che con l’attuale disponibilità di test che cercano direttamente il virus e non ad esempio gli anticorpi, si perde una quota non indifferente di soggetti che guariscono spontaneamente e nei quali il virus non si trova più.

Dunque la malattia è trasmissiva anche quando uno non ha sintomi. Sarebbe una novità?

La malattia potrebbe essere trasmissiva anche senza sintomi e ciò non sarebbe per nulla una novità. Lo spettro di presentazione di molte malattie virali è amplissimo. Chiunque abbia avuto a che fare ad esempio con i bambini, sa bene che alcuni in corso di varicella presentano pochissime vescicole mentre altri sono sfigurati dalle lesioni cutanee o addirittura hanno coinvolgimento di altri organi.

E questo che scenari apre?

Per il singolo paziente potrebbe essere una buona notizia: l’infezione può essere clinicamente irrisoria. E i dati mondiali fino ad ora disponibili sembrerebbero fortunatamente confermare il tutto. Tuttavia questo è un grosso problema di salute pubblica.

Ci spieghi bene questo punto.

La possibilità che il virus si diffonda è massimizzata proprio dalla possibilità di essere trasmesso prima che compaiano i sintomi e dal fatto che possano “circolare” soggetti infetti apparentemente sani, e quindi non riconosciuti, fuori dagli ospedali. Il tutto reso più difficile da un periodo di incubazione relativamente lungo. Paradossalmente potremmo dire che un’infezione invariabilmente grave, che richieda sempre un’assistenza medica intensiva e con un periodo di incubazione molto breve, potrebbe essere molto più gestibile a livello di contenimento dell’epidemia. Se potessimo scegliere però, sceglieremmo ancora lo scenario coronavirus.

Dal punto di vista scientifico la famiglia del coronavirus si conosce bene, però siamo davanti a una variazione inedita. State cercando ancora di capire com’è nata questa variazione?

I coronavirus sono da sempre molto diffusi tra gli animali sia domestici che selvatici e rimangono virus di interesse eminentemente veterinario, ma nel corso degli ultimi anni (sembrerebbe da circa 1000 anni, molto poco in termini di evoluzione) sono diventati capaci di sfruttare l’uomo. Fino alle famose epidemie degli ultimi anni, Sars nel 2002 e Mers nel 2012 ed ora nuovo coronavirus, ribattezzato Covid-2019 pochi giorni fa. Semplificando, si può affermare che a causa in particolar modo della grande capacità di mutare di quella parte di virus che si lega alle cellule, una sorta di chiave che cerca la serratura corretta, la possibilità di esplorare ospiti diversi è un po’ insita nella natura di questi virus. Non stupisce quindi che virus a partenza animale possano interessare l’uomo.

Ha citato due epidemie ormai trascorse e quella che ci riguarda. In tutte c’entrano gli animali. Però non tutti allo stesso modo.

No, infatti. Quello che si sa ormai per certo è che i pipistrelli rappresentano il “serbatoio” di partenza dei vari coronavirus in questione: questi animali ospitano il virus ma non si ammalano di infezione. Il virus dai pipistrelli verrebbe poi trasmesso ad un animale intermedio – lo zibetto e un tipo particolare di dromedario per Sars e Mers rispettivamente – che poi lo trasmetterebbe all’uomo. L’animale intermedio nel caso del nuovo coronavirus non è stato ancora identificato.

Questa variazione inedita in atto era prevedibile?

Non sono una virologa, ma da quanto mi è noto questa “variazione”, più correttamente questa epidemia sostenuta da un virus mai circolato prima nell’uomo, non era per nulla inattesa. Certo, non si potevano immaginare tempi, caratteristiche del virus e implicazioni cliniche, ma era un evento in qualche modo previsto. Soprattutto dopo le lezioni di Sars e Mers.

È la seconda epidemia in pochi anni che si genera in Cina. Si danno le colpe alla scarsa igiene, al sistema sanitario deficitario di questo paese. La colpa è dei cinesi?

Vanno anzitutto distinte i piani: un conto è capire come mai un virus salta la specie e si diffonde all’uomo, un’altra cosa è identificare delle problematiche di diagnosi e cura.

Veniamo al primo punto.

È abbastanza assodato che più che la scarsa igiene in senso lato il problema è la forte promiscuità uomo-animale presente ancora in molte aree della Cina, in particolare per la pratica di macellare a scopo alimentare una grande varietà di animali anche selvatici, con precauzioni da contatto minime. Questo è un fatto: va tuttavia ricordato quanto detto prima. I virus in questione sono particolarmente abili a passare dall’animale all’uomo. Addirittura è stato documentato un passaggio inverso, dall’uomo all’animale, come si è verificato in un’epidemia porcina negli anni 80 in Belgio e in Inghilterra. Questo potrebbe non bastare ad assolvere in toto certe pratiche cinesi, ma sicuramente aiuta a rifocalizzare il problema in maniera scientifica, senza facili banalizzazioni che poi portano a commenti o peggio ad azioni e misure discriminatorie.

E per quanto riguarda il sistema sanitario?

Sappiamo che la Cina passa da eccellenze cliniche a livello mondiale, a livelli di assistenza totalmente inadeguati. Quest’ultima condizione potrebbe avere contribuito all’inizio ad una difficoltà di gestione della malattia e/o a diagnosi non tempestive. Ma per quanto detto prima, evoluzioni molto gravi o fatali della malattia in Cina non hanno certamente contribuito a diffondere la malattia fuori dalla Cina. Poi c’è il problema della trasparenza del governo cinese, ma questo è un altro discorso.

Per un vaccino quanto bisognerà aspettare?

È normale ma poco realistico affidare ad un eventuale vaccino le speranze di contenere un’epidemia così. Senza nulla togliere allo sforzo immane e congiunto che verrà compiuto e che è già in atto per disegnare un vaccino, i tempi per la messa in atto e soprattutto per una sperimentazione sull’uomo, per quanto rapida possa essere, si calcolano sempre nell’ordine di anni. Nel breve/medio termine pertanto non c’è nessuna concreta possibilità.

Dove stanno i problemi maggiori?

Oltre alla questione meramente tecnica legata ad una possibile sperimentazione vaccinale va aggiunta la difficoltà di ottenere un vaccino a partenza da alcune zone del genoma virali estremamente variabili e sottoposte a mutazioni spontanee. Un po’ come rincorrere un bersaglio in movimento. Con tutte le approssimazione del caso, per l’Hiv non disponiamo ancora di un vaccino.

Nel frattempo ci dobbiamo affidare alle indicazioni mediche che ci sono state date fino a oggi?

Certo le indicazioni igienistiche più che mediche rimangono fondamentali: lavarsi spesso le mani, proteggere se stessi dai colpi di tosse o starnuti altrui e viceversa, attenersi alle indicazioni sull’autoquarantena se si hanno avuto contatti con soggetti infetti. Va detto, non solo per risollevare gli animi, che tra il vaccino e questa forma di prevenzione ci sono già alcuni farmaci che sono stati di volta in volta somministrati, con un razionale biologico e forse già con qualche sentore di efficacia.

Di che cosa si tratta?

Si tratta per lo più di farmaci usati e licenziati per altre patologie infettive virali – come ad esempio l’Hiv – e non, talora somministrati insieme. Utilizzare questi farmaci darebbe l’enorme vantaggio di conoscerne già gli effetti collaterali, gli aspetti farmacologici eccetera, con conseguente drastica riduzione dei costi e dei tempi. Ovvio che siamo ancora nell’ambito sperimentale: da clinico però, non sarei così restia a somministrare un farmaco già collaudato in altri ambiti, in caso di necessità. Mi risulta che si stia già facendo…

Era inevitabile che arrivasse il malato italiano, e da ieri sera, anche la prima vittima. Ve lo aspettavate?

Chi lavora in ambito di emergenza si aspetta necessariamente l’evento, anche se nelle ultime settimane avevamo un po’ avuto l’impressione e l’illusione che la cosa si stesse “sgonfiando”. Devo dire che questo arrivo tutto sommato ritardato ci ha consentito di fare delle prove in tempo di pace. Mi riferisco a qualche caso sospetto, pochi per la verità, poi non confermato al test. Il dover applicare le procedure e testarne la tenuta anche con scarso sospetto clinico ci ha aiutato ad arrivare decisamente più pronti a questo appuntamento non desiderato. Ma è presto per dire se il sistema reggerà l’urto: certamente l’impressione è che ci siano degli ottimi presupposti e una volontà di operare in modo collegiale e fattivo.

Qual è l’aspetto organizzativo più difficile in questo scenario?

Sono un clinico e non mi occupo di organizzazione, ma mi sembra che prendere decisioni che salvaguardano la salute del singolo e della collettività senza gettare panico e bloccare il normale svolgimento della routine ospedaliera – che non è mai routine! – sia proprio un punto difficile che richiede grande capacità organizzativa ma anche grande saggezza. Ma ci sono anche aspetti positivi: queste situazioni aiutano a rivedere protocolli, ripensare spazi fisici (pensiamo alle stanze di isolamento in ospedale), mettere persone con competenze diverse attorno a un tavolo, con l’umiltà e il desiderio di approcciare e fronteggiare qualcosa che è nuovo per tutti.

Complessivamente, come cittadini possiamo dirci fiduciosi che verrà fatto il possibile per contenere la diffusione del virus e all’occorrenza gestire al meglio la patologia?

Penso proprio di sì: poche volte si è osservato in ambito medico un’attivazione così rapida e massiva su più fronti. Per quanto riguarda la gestione della patologia va detto che le complicanze più gravi a livello respiratorio sono già quotidianamente oggetto di gestione in tutte le terapie intensive, con linee guida e protocolli ben consolidati. Che siano determinate dal coronavirus o da altre cause in questo ambito diventa abbastanza indifferente. Ma gli strumenti ci sono.

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