Il crac delle borse mondiali è stato generato non solo dalla pandemia del coronavirus nata nell’Impero di Mezzo in un tempo imprecisato e che non sarà mai disvelato dal totalitarismo cinese. Tale crac è stato il prodotto di una lotta geopolitica in corso tra le grandi potenze energetiche che ha fatto crollare il prezzo del petrolio fissato secondo criteri speculativi e non legati alle quantità fisiche prodotte e scambiate. La spregiudicata manovra della fazione attualmente vincente tra le tribù saudite dominanti, con Bin Salman impegnato in una lotta senza quartiere di destabilizzazione del sistema di successione poligamico, mira a non limitare le quantità prodotte di petrolio per indebolire sia la Russia sia gli Usa con i bassi prezzi del greggio, minacciando il budget statale russo e le produzioni da perforazioni orizzontali e in scisti bituminosi nordamericane.



Il nuovo cigno nero del coronavirus si è abbattuto come un maglio sulle catene produttive e commerciali mondiali, generando insicurezza e blocchi delle interconnessioni economiche e tecnologiche. In questo contesto le misure governative assunte dall’Italia sono in alcuni punti sconcertanti, perché non considerano il fatto che si deve certo difendere la salute dei cittadini e combattere l’epidemia, ma, allo stesso tempo, salvaguardare la parte essenziale dell’apparato produttivo senza di cui neppure le risorse per battere l’epidemia possono riprodursi. Il solo messaggio di “stare a casa” è una rinuncia a utilizzare in primo luogo tutte le possibilità e potenzialità tecnologiche che oggi possiamo porre in atto per vincere il virus senza interrompere la macchina produttiva, distributiva e riproduttiva della società.



Dopo aver riconosciuto tardi la gravità dell’epidemia e aver agito seguendo e non prevenendo la malattia, si fa ricorso a uno slogan veramente offensivo per coloro che lavorano e che conoscono che cosa sia l’Italia e su che cosa si fondi il suo patrimonio produttivo e culturale. Esso si fonda sull’attività interconnessa socialmente di milioni e milioni di persone che vivono ancora gran parte del loro tempo di vita nei luoghi di lavoro.

Altro che “stare a casa”. Si deve e si doveva comunicare e agire in ben altro modo. L’ esempio della Corea del Sud e di Taiwan, profondamente colpite dal coronavirus cinese, è prezioso a questo riguardo. Le persone contagiate sono state sottoposte a una quarantena in strutture ospedaliere e tutte le persone che hanno avuto contatti con i positivi al test sono state sottoposte a controlli accurati utilizzando la tracciabilità delle interconnessioni telefoniche wireless e con modelli algoritmici di previsione. Il controllo delle frontiere non è stato considerato un livello adeguato di sicurezza, mentre grande attenzione è stata riservata alle linee guida per le scuole, le università e i luoghi di lavoro.



Sulla base dell’esperienza degli anni passati, dalla Sars all’influenza aviaria, si è lavorato su un sistema integrato per l’analisi di big data combinando i dati del database dell’immigrazione e dogana con l’archivio nazionale del sistema sanitario. L’identificazione dei singoli casi è avvenuta in tempo reale, comparando i sintomi clinici con la raccolta dati dei viaggi del paziente e dei suoi familiari.

Tutte queste decisioni sono state prese dal National Health Command Center (Nhcc) che ha deciso in piena autonomia le misure da adottare disponendo di fondi governativi, personale militare e civile operando a livello nazionale sia a livello sanitario, sia dell’ordine pubblico. E questo è stato fatto con una visione di ingegneria sociale, unendo sociologia, tecnologia e sapere antropologico e naturalmente sapere medico, che tuttavia non è l’esclusivo punto di riferimento. Occorre un contesto di analisi in cui la variabile virologica ed epidemiologica è l’ascissa fondamentale scientifico–naturale sulla quale si fanno scorrere le conoscenze sociali secondo una sapienza politica fondata sulla conoscenza del tessuto sociale. Questa conoscenza manca alla classe politica al governo.

In Italia non vi è nessuna comunicazione conoscitiva tra chi governa e chi è governato, se il governato è un lavoratore dipendente di ogni ordine e grado e di ogni contesto produttivo e non produttivo, un artigiano, un piccolo commerciante, una partita Iva. La nuova classe politica globalista ed eurofila senza criticità non riconosce più la società in cui vive.

E poi occorre non avere più dubbi: il mercato è fallito. Esiste solo nelle dinamiche finanziarie. Ma l’allocazione dei fattori di riproduzione del capitale fisso (imprese e reddito delle famiglie e profitto delle imprese che ne sorreggono la circolazione in forma di merce) può oggi essere garantita solo dallo Stato. Quindi misure eccezionali sul piano fiscale di sostegno dei redditi: non si deve perdere un posto di lavoro e il capitale circolante delle imprese deve essere posto in grado di ricostruirsi sino a modificare gli articoli del codice civile che costringono le imprese a regole (assemblee, ecc.) non praticabili e garantendo i mutui attraverso la creazione di una banca nazionale, sfidando qualsivoglia regola europea.

La società che si deve difendere è quella del lavoro. Essa – vivaddio – ancora non è la società della movida e delle famiglie che lasciano i figli uscire alle 23 ogni notte e i cui componenti possono vivere a casa senza far nulla. La società italiana è società di migliaia di piccoli e medi comuni e di una miriade di piccole e piccolissime attività produttive che non possono lavorare in smart working, ma che debbono continuare a lavorare in fabbrica e negli uffici continuamente sanificati. E debbono uscire di casa per lavorare e vivere.

Perché vediamo igienizzare strade e metropolitane in tutto il mondo asiatico? Ma perché in quella società antropologicamente comanda non solo l’obbedienza confuciana, ma anche il lavoro di milioni e milioni di persone. L’ Italia deve fare altrettanto e lo slogan non può essere “state a casa”, ma invece “lavorate e vivete in prudenza e sicurezza”.

Come? Con la tracciabilità delle merci e non solo delle persone, con l’isolamento delle persone malate, certamente, ma anche sostenendo finanziariamente la creazione di posizioni lavorative di salvaguardia e non distruggendo le comunità di lavoro. È un messaggio potente che non può neppure concepire chi ha come riferimento ideologico–comportamentale le movide e la stratificazione sociale di coloro che non lavorano e non studiano.

Solo cambiando slogan e disposizioni si possono meglio difendere gli anziani proteggendoli senza isolarli, impedendo che su di loro e su di loro soltanto continui a gravare il lavoro di cura della riproduzione sociale attraverso la famiglia, ossia accudendo i nipotini che non vanno a scuola dove potrebbero meglio essere protetti se educati all’ordine morale e non al comportamento brado che già li prepara alla movida.

Ma per far questo bisognerebbe avere un immaginario sociale non da percettori di rendite improduttive. l’Italia che lavora, invece, esiste e deve iniziar a essere riconosciuta per quello che è: l’ultima nostra speranza. E l’ultima nostra speranza non può non essere quella che questa terribile minaccia sanitaria si possa trasformare in una profonda ridefinizione delle politiche economiche europee.

Il 2020, infatti, sarà ricordato come l’anno della decelerazione della globalizzazione e della crisi evidente di un mondo che non riesce a riacquistare stabilità e a crescere economicamente per assenza di leadership. Decelerazione, infatti, e non improvvisa rottura delle interconnessioni dell’economia internazionale. Decelerazione perché sono più di trent’anni che la Wto non riesce a raggiungere un accordo multilaterale di commercio.

L’unica globalizzazione che si è realizzata nel pianeta è stata quella finanziaria: la moneta simbolica creata dalle banche centrali e quella digitale originata dalle banche universali sulle scommesse dei derivati è l’unica merce che si sposta in tutto il mondo senza barriere e a costi di transazione tendenti allo zero.

È questa discrasia tra super–globalizzazione finanziaria e semi–globalizzazione manifatturiera che crea le crisi mondiali e si somma con la deflazione secolare indotta dalla politica economica europea fondata sul liberismo a bassa intensità di investimenti pubblici e alta restrizione dei mercati interni e del profitto capitalistico colpiti dalla deflazione. La Cina ha aggiunto a questo scenario un’asimmetria imprevista e che pareva sino a oggi inarrestabile con la sua entrata nella Wto.

La signora Lagarde, presidente post–Draghi della Bce, dovrebbe dimettersi. La sua dichiarazione in merito allo spread, “Non è materia europea, ma degli Stati nazionali”, riprende la posizione che era propria del terribile Trichet, primo presidente della Bce e generatore delle politiche franco–tedesche che scagliarono l’Europa nella deflazione secolare in forma irreversibile. Solo l’avvento della presidenza Draghi – sponsorizzata con inaudita forza dagli Usa – consentì in parte di neutralizzare tale sciagurata politica salvando le banche ma non le economie reali. La signora Lagarde non ha capito che le sole politiche di aumento della liquidità in questa situazione non possono che essere devastanti. Se esse potevano rimandare le crisi con l’abbassamento dei tassi sino a valori negativi distruggendo il risparmio e ponendo le basi per il crac delle banche europee soffocate dalle crisi delle imprese, oggi sono ancora più negative portando alla catastrofe. Occorreva – invece – dare un chiaro messaggio per un ampliamento delle garanzie di credito, cosicché le banche possano prendere in prestito più liquidità grazie alle lettere di credito per le imprese.

Si può e si deve, per esempio, sterilizzare i titoli di Stato detenuti dalle banche centrali nazionali tramite la Bce, liberando in tal modo risorse di credito alle imprese nei singoli Stati. Invece la signora Lagarde ha detto: “Non siamo qui per chiudere gli spread”. È stato come invocare un intervento diretto a tenere sotto controllo i rendimenti dei titoli di Stato. E quindi ad accendere un allarme sulla crisi del debito pubblico che potrebbe essere inevitabile, del resto, se lunedì 16 marzo a Bruxelles si approvasse il Mes: si porrebbero così le basi per distruggere di fatto in sol colpo l’economia italiana, portoghese, greca e minacciando anche quella spagnola.

La signora della Bce anticipa una possibile soluzione catastrofica. E questo in una situazione in cui molti analisti, sino a oggi eurofili, iniziano a dubitare della stessa tenuta dell’euro. Cito per tutti il direttore dell’Istituto Bruegel, Guntram Wolff, il quale – esprimendo il dubbio che in questo modo sia l’euro stesso a essere posto in discussione – enuncia in forma ancora inconsapevole quella che a parer mio sarà la fuoriuscita drammatica da questa crisi: la decisione della Germania di abbandonare l’euro in modo violento e improvviso, vincendo in questo modo quella che non potrà non essere una guerra lampo, una Terza guerra mondiale.

La prima che una grande potenza economica vincerà senza esercito. E la prima guerra moderna che la Germania vincerà, mentre sino a oggi, avendo perso tutte le guerre, ha sempre vinto tutte le paci per via della sua collocazione geopolitica. E questa sarà la vera sconcertante tragedia che ci attende, se non facciamo scendere dai loro seggiolini sospesi nel nulla i tipi ideali weberiani modello Lagarde, iniziando la ricostruzione culturale e spirituale di un nuovo rapporto tra le potenze europee e il mondo.

Viene alla mente il capitolo ottavo della Lettera di San Paolo ai Romani, là dove si dice del gemere del mondo che aspira alla resurrezione nel dolore. Come oggi.

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