Ciò che non ha potuto realizzare il sovranismo, l’ha fatto in quattro e quattr’otto il virus. In una sorta di nemesi comica, il prodotto più globalizzato possibile, minuscolo e strafottente di fronte ad ogni barriera, ad ogni frontiera, ha sbriciolato in men che non si dica ogni ampollosa retorica sovranazionale. E gli uomini, così minuscoli come gli Stati che rappresentano e le idee di cui si riempiono la bocca, come i più pusillanimi abitatori di Orano, la città modello delle nostre fobie celebrata da Camus in La peste, eccoli tremolare e guaire, chiudere e sbarrare, come se il virus, paradigma della nostra fragilità, possa fermarsi al Brennero.
Ma c’è di più in questa straordinaria nemesi: c’è che quel Nord, bacino antropologico di ogni idea di “difesa”, di “chiusura”, di controllo, di navi interdette allo sbarco, ora si vede additato come un cinese qualsiasi. E al lombardo viene addirittura negato lo sbarco nella terronissima Ischia.
Dio mio, quel che accade è davvero divertente! Tra un po’ sarà impossibile perfino varcare il Po, quel confine psicologico che divide la cittadella fortificata dell’economia e del progresso, della moda e del lavoro, dello sguardo all’Europa (ma quale Europa, perdio!) dal resto di un’Italia che arranca. Ma ecco la nemesi: ora l’appestato è proprio lui, il cumenda con i dané. Quello che chiudeva (almeno a parole) le porte e le finestre, che teneva a distanza ogni forma infetta d’umanità.
Da ridere. Che siano gli austriaci a non volerci far varcare il Brennero, beh, c’è da aspettarselo. Forse non aspettavano occasione migliore (salvo che il virus non si picchi di farsi una birra, un würstel e una palla di Mozart); ma che siano i terroni a vietare lo sbarco ai lumbard e i rumeni a chiuder le frontiere e a considerare appestati i buoni lavoratori lombardo–veneti, beh, questa poi! C’è da aspettarsi che si attivino poi gli albanesi o l’intera Africa. Basta sbarchi di lumbard sulle nostre coste, portano le malattie…
Decisamente comica la situazione, se dietro questa vicenda non vi fosse una vera e propria tragedia. No, il tragico non sta solo nell’infezione. Il tragico risiede nel nanismo di una classe dirigente nazionale ed europea incapace di affrontare con serietà una situazione difficile, di farlo collegialmente, con un’unica voce ed un’unica azione; la tragedia sta in un sistema dell’informazione sovreccitata e incapace di bilanciare con serietà ogni debolezza del potere e del sistema; la tragedia sta in un’opinione pubblica spappolata nell’anima e nel cervello, pronta a sposare qualsiasi cazzata.
Così, tra lombardi indesiderati, supermercati svuotati, fobie igieniste, creatività alimentare, complottismi batteriologici, rospi e pipistrelli gourmet, l’unica cosa seria è lui, quella pallina nera con le protuberanze che più che dalla Cina sembra esser venuta dallo spazio. Seria, non solo per i suoi effetti clinici, che in fondo conosciamo ancora poco, tenuto conto che una semplice influenza senza corona decima ad ogni stagione oltre duecento persone; seria soprattutto perché smonta ogni nostra baldanza, ogni nostra presunzione di felicità, ogni certezza nel potere taumaturgico di un display acceso in ogni luogo e in ogni minuto del giorno. Insomma, svolazzando di qua e di là ci dice quanto siamo nani.
E se col virus mi facessi un selfie?