Le nostre strade sono deserte. Se non fosse per l’assenza dell’angosciante suono delle sirene che, per grazia di Dio e volontà degli uomini, molti di noi non hanno mai sentito, sembrerebbe di essere tornati in guerra. La guerra contro un nemico invisibile, ma reale, che rischia di uccidere tante persone.

Il Governo italiano ha annunciato nuovi provvedimenti restrittivi. È una corsa contro il tempo. Negli ospedali medici e infermieri, andando oltre l’etica professionale, mostrano un senso di umanità e di fratellanza che stupisce, suscitando un sincero sentimento di ammirazione e riconoscenza. Il Governo cerca di migliorare la macchina organizzativa. Gli amministratori si prendono cura delle comunità locali. Lavoratori e datori di lavoro si preoccupano delle loro aziende, che sono poi le nostre comunità produttive. Gli scienziati di tutto il mondo hanno già dichiarato che troveranno il vaccino, ma serve tempo, forse più di un anno.



Un tempo che invece manca alla politica, chiamata ad assumere decisioni immediate. Sembra emergere un drammatico conflitto tra le ragioni della salute e quelle del lavoro. Che fare? Chiudere tutto riconoscendo il valore assoluto della salute e relegando l’economia in secondo piano oppure, pur riconoscendo il sacro primato della persona, lasciare un varco aperto all’economia e quindi al lavoro?



Senza alcuna pretesa, cercherò di portare un contributo seguendo questo percorso. Prima vedremo quali sono i danni economici, effettivi e potenziali, del coronavirus. Poi esamineremo il rimedio estremo: la chiusura totale del Paese. Infine, esamineremo la cura che lascia aperto uno spazio alle attività produttive.

Al momento è difficile, forse impossibile, quantificare il danno economico del virus. Il Governo ha stanziato 25 miliardi di euro per fronteggiare l’emergenza, ma è una cifra provvisoria. Quello che è invece certo è che siamo in presenza di uno shock da offerta, così lo definiscono gli economisti, che rischia di propagarsi in uno shock da domanda, contagiando l’intera economia: italiana, europea, mondiale.



In passato abbiamo conosciuto diversi shock dell’offerta: la Seconda guerra mondiale, la quadruplicazione del prezzo del petrolio nel 1973, l’attacco terroristico alle Torri Gemelle nel 2001. In tutti questi casi, e in altri ancora, si rompeva qualche anello della catena produttiva. Pensiamo, per esempio, alla guerra. Interi Paesi furono costretti a spostare ingenti risorse, umane e finanziarie, dalla produzione di beni civili (cibo, vestiario, ecc.) a quella di materiale bellico. L’economia fu privata di beni fino ad allora disponibili per la semplice ragione che non era più possibile produrli. Qualcosa di analogo sta accadendo oggi, nel mondo interconnesso delle catene globali del valore, in cui la produzione è organizzata su scala globale. L’esempio simbolo è l’iPhone, formalmente prodotto a Cupertino da Apple, ma in realtà assemblato in Cina con componenti provenienti da tutto il mondo. Se si ferma la Cina, o qualsiasi altro Paese, si rompe un anello, più o meno grande, di qualche catena globale del valore. Pensiamo a cosa può accadere se si fermano, uno dopo l’altro, più Paesi nel mondo.

Ma la situazione è ancora più grave. Il rischio è che allo shock da offerta segua, si aggiunga, uno shock da domanda. Keynes ci ha insegnato che il pericolo più grande per l’economia è l’incertezza. Quando prevalgono la paura e il pessimismo i soggetti economici, istintivamente, si fermano e rinviano ogni decisione di spesa: le famiglie, anche quelle benestanti, non spendono, ma risparmiano, le imprese, anche quelle solide, non investono, ma tesaurizzano. Alla contrazione dell’offerta si aggiunge una contrazione della domanda aggregata – dei consumi, degli investimenti e delle esportazioni – che trascina ancora più in basso la produzione e quindi l’occupazione spingendo l’economia nel vortice di una spirale recessiva.

Che fare? Innanzitutto occorre affermare, con convinzione, che ogni scelta economica è subordinata all’obiettivo primario di salvaguardare la salute di ogni singola persona: giovane o anziana, occupata o disoccupata, nata in Italia o altrove, di qualsiasi colore o religione. Affermato questo principio, si aprono davanti a noi due possibili scenari.

Il primo è quella della serrata generale. Il Paese chiude, per il tempo necessario a bloccare la propagazione del virus. Dal lato dell’offerta si erogano soltanto i servizi essenziali. Restano aperti esercizi alimentari, farmacie, banche, uffici pubblici. Dal lato della domanda, lo Stato, con la s maiuscola, si erge a grande samaritano. Rassicura tutti, per vincere la keynesiana incertezza. Ripete il “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi per difendere l’euro. In concreto, lo Stato italiano rassicura che nessuno perderà il lavoro per colpa del virus e tutti coloro che ne hanno necessità riceveranno un aiuto e un sostegno.

In questa prospettiva la politica economica rinuncia, perché impossibilitata, a contenere lo shock da offerta e si focalizza sul contrasto allo shock da domanda. Come hanno scritto Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera dell’11 marzo 2020: “Purtroppo non c’è nulla che la politica economica possa fare per attenuare lo shock all’offerta: solo la disciplina dei cittadini, se si attengono scrupolosamente alle regole anti-contagio, può rallentarne la diffusione. Questo non è il momento di disquisire di libertà personali e di diritti dei giovani (meno a rischio) e degli anziani (a rischio). Le regole vanno rispettate. Ma impedire una caduta della domanda, questo sì è il compito della politica economica”.

Una cura pesante prescritta nella fondata speranza che sia breve: l’economia si ferma e riparte, stop and go. Il rischio è che non sia breve e quindi possa diventare troppo pesante, lasciando comunque esposti i lavoratori costretti a restare in azienda.

L’altro scenario è quello della serrata parziale. Il Paese si riorganizza e, almeno in parte, lavora da casa o in modo diverso. La politica economica cerca cioè di contrastare anche lo shock da offerta. In concreto, oltre a salvaguardare i servizi essenziali, si cerca, sempre nel rispetto del prioritario diritto alla salute, di proseguire alcune attività produttive.

Immaginiamo questo scenario. Le imprese, tutte, piccole e grandi, pubbliche e private, nei limiti del possibile, si riorganizzano. Coloro che abitualmente svolgono un lavoro di back office, al computer, lavorano da casa: finalmente si sperimenta lo smart working che, una volta finita l’emergenza, servirà a conciliare tempi di lavoro e di famiglia e accrescerà comunque la produttività del lavoro. Coloro che invece non possono svolgere da casa i loro compiti restano in azienda, ma fanno i turni in modo che ciascuno possa trascorrere un periodo di quarantena a tutela della propria e dell’altrui salute. La produzione subisce un calo, ma comunque non si interrompe e resta più elevata rispetto al primo scenario. Sempre al fine di tutelare la salute, le imprese potenziano, finalmente, l’e-commerce nelle vendite B2B e B2C e cioè nello scambio con altre imprese o direttamente con i consumatori. In Italia l’e-commerce cresce a ritmi elevati – soprattutto nei comparti dell’informatica ed elettronica, del turismo e dell’abbigliamento e arredamento -, ma il Paese resta agli ultimi posti nella speciale classifica. Di nuovo, questa può essere l’occasione per sviluppare un’attività che sarà comunque utile anche dopo l’emergenza.

Dal lato della domanda, oltre all’azione fattivamente rassicurante dello Stato, è necessario un consumo responsabile dei cittadini: usiamo i canali dell’e-commerce per acquistare libri, dvd, abiti, cibo. Non annulliamo le vacanze programmate per l’estate. Insomma, battiamo l’incertezza con la fiducia.

La seconda è una cura un po’ più leggera che mira però a salvaguardare anche la salute di coloro che restano in azienda e il lavoro di tutti noi.

Le cure economiche possibili sono dunque due, ma il vaccino è lo stesso: la solidarietà. Come in guerra, nessuno si salva da solo. Serve una vasta rete di solidarietà: tra produttori, che proprio in questa drammatica occasione possono rafforzare gli anelli della filiera; tra produttori e consumatori, che possono sperimentare nuovi e più avanzati modelli di interazione; tra regioni italiane, che fanno parte di un’unica comunità nazionale; tra Paesi europei, che appartengono a una stessa comunità transnazionale e col concorso dell’intera comunità internazionale.

L’Europa ha autorizzato l’Italia ad accrescere il proprio disavanzo pubblico. Non basta. Nel dopoguerra l’Europa ha avviato un processo di unificazione politica, innanzitutto, per scongiurare il ripetersi di una nuova grande guerra. Sì, un processo di unificazione politica, perché la via prescelta della progressiva integrazione economica era l’unica percorribile per giungere all’unità politica. Ma lo scopo, la mèta era e resta l’unità politica, secondo un modello conforme ai principi di sussidiarietà, solidarietà e bene comune.

L’Europa intervenga per scongiurare lo scoppio di una guerra, contro l’invisibile ma reale nemico del coronavirus, che potrebbe colpire tanti uomini e donne europei. Stanzi un fondo per un programma comune di salute pubblica finanziato, se necessario, con l’emissione, finalmente, di Eurobond.

Le nostre strade, dopo tanti anni, sono tornate deserte. Ma non è una guerra tra uomini. È semmai la rinnovata, eterna, lotta dell’uomo contro le avversità. Una battaglia, quella che stiamo combattendo oggi, che possiamo vincere solo se prevale un sentimento di comune responsabilità e solidarietà, nella certezza, per chi crede, che “anche dal male Dio sa trarre un bene più grande”.

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