Mentre in Italia, come in altri paesi europei, sembra che la fase peggiore della pandemia sia passata, in Siria, nel più assordante silenzio dei media, si alza un grido angoscioso: “Stiamo morendo di fame”. Lo conferma in questa intervista padre Firas Lutfi, ministro francescano della Regione San Paolo (Giordania, Libano e Siria), che sottolinea come, fortunatamente, il contagio in Siria non abbia avuto pesanti strascichi e le vittime non siano numerose. Il problema però è un altro, legato al lockdown totale che dura ormai da cento giorni. In un paese già in ginocchio dopo dieci anni di guerra, impedire alla gente di andare a lavorare, di fare la spesa comprando quel poco che è ancora acquistabile, perché “gli aiuti che arrivavano in Libano e poi venivano mandati in Siria non giungono quasi più. Questo anche per colpa delle sanzioni che i paesi occidentali continuano a mantenere nei confronti del governo siriano. Come mi ha detto un padre di famiglia: preferisco morire di virus che vedere i miei figli morire di fame”. Una doppia vergogna per il mondo occidentale, che prima ha lasciato la Siria soffocare nel sangue e adesso la lascia morire di fame.
Com’è la situazione in Siria? Il virus ha fatto molte vittime, ha contagiato molte persone?
Dal punto di vista numerico non ci sono molti casi, si contano quasi sulle dita di una mano. Ma il problema non è il virus in quanto tale, bensì le misure che sono state prese per contrastarlo.
Intende il lockdown che tutti i paesi del mondo hanno adottato?
Sì, sono già quasi cento giorni di chiusura, la gente vive nel panico per le ricadute economico-finanziarie. Ricordiamo che lo scorso marzo è stato il decimo anniversario dell’inizio della guerra, le persone avevano già sofferto abbastanza perdendo casa e lavoro e trovandosi in tanti sotto la soglia di povertà. Questi ultimi mesi con la chiusura delle attività sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Come sta reagendo la gente?
Tanti padri di famiglia sono costretti a lavorare alla giornata, non hanno nessuna certezza per il giorno dopo e si domandano: come posso sfamare i miei figli? Questa chiusura è doppiamente drammatica.
Perché?
È drammatica a livello mondiale, ma in Siria, data la precondizione dovuta ad anni di guerra, è oggi il problema più grave.
Adesso è ancora in vigore un lockdown totale?
Sì, i confini con Libano e Giordania sono chiusi. La gente è impaurita e demoralizzata. Bisognerebbe aprire un po’ alla volta, in maniera graduale. Le famiglie siriane sono straziate, il livello di povertà ha raggiunto l’80% della popolazione. È una catastrofe umanitaria.
Il virus ha colpito moltissimi paesi, ma a dominare è il fatto che ciascuno pensa a se stesso. Ci sono nazioni, come la Siria, a cui nessuno si interessa.
Purtroppo è così. Capisco che ogni nazione è preoccupata, questo virus ha bloccato tutto, però la Siria era già in ginocchio. Invece i paesi occidentali hanno prolungato le sanzioni economiche. Anche il Libano, dove arrivavano gli aiuti della Chiesa e delle Ong, si trova da mesi in una gravissima crisi finanziaria. Le banche libanesi, che ci aiutavano molto, hanno smesso di farlo. È come se una nazione intera stesse soffocando in modo disumano. Non è il momento di togliere queste sanzioni economiche e di far passare medicinali e cibo per la sopravvivenza della popolazione? C’è qualcosa di disumano in tutto questo: è iniziato con la guerra e adesso è arrivato al suo culmine.
Come pensa si possa affrontare questa emergenza?
Con un impegno raddoppiato e mirato. Questo virus ha toccato tutti, ha abbattuto le maschere e ha mostrato la fragilità del mondo intero. È arrivato il momento di cambiare mentalità.
In che modo? Lei che cosa chiede?
Penso sempre all’appello che fece il Santo Padre durante la Pasqua, citando il passo del Vangelo in cui la barca dove si trova il Signore con gli apostoli sta affondando e loro Gli chiedono di salvarli. La barca è simbolo di tutta l’umanità che soffre il virus. Ma, una volta usciti dalla pandemia, ricadiamo nella stessa mentalità egoistica e indifferente di prima e non va bene. Ci sono paesi che erano già poveri e adesso sono diventati poverissimi.
(Paolo Vites)