DA MADRID. Questa mattina mio fratello ed io abbiamo cercato sul telefono quando è stata la prima volta che abbiamo parlato del coronavirus su WhatsApp: era il 27 febbraio. Ed era uno scherzo. A quanto pare, l’auriga romano di Asterix si chiamava così (a proposito, il suo illustratore è morto questa settimana). Quasi un mese dopo, le battute di allora suonano più fredde che mai. Poco meno di due settimane fa, discutevamo tra colleghi giornalisti se occorreva informare minuto per minuto sul coronavirus o se non rischiavamo di generare un allarme inutile su qualcosa che sembrava simile a un’influenza. Anche queste discussioni sembrano oggi assurde, quando le cifre su morti e contagiati sono aumentate così drasticamente e il nostro sistema sanitario è collassato.
Cifre che scoppiano sul viso quando poco a poco raggiungono volti cari. Prima la nonna di alcuni amici, il giorno dopo la tua capa, poi il papà di un altro amico, quindi un altro e un altro ancora. Fino a che il tuo stesso papà comincia ad avere la febbre. Cosa ci sta succedendo? Come essere all’altezza del dolore degli amici che hanno sepolto la nonna con mascherine e a un metro di distanza tra di loro? Cosa dici a un’amica medico che deve ritornare a lavorare dopo il permesso per malattia in un ospedale strapieno? Come si fa ad abbracciare su WhatsApp?
Le rassicurazioni di prima non servono. Non è una consolazione pensare che colpisce principalmente gli anziani, che l’80% dei casi è lieve, nemmeno il fatto che i politici dicono che ne usciremo. Perché, come dice un caro amico, questi morti, questi 3.434 morti (saranno di più quando verrà pubblicato questo testo), sono i nostri morti. Sono la nonna di Javi e l’amico di Silvia.
Che sfida scrivere pensando che quelli che lo leggono sono Javi e Silvia! Pensavo questo leggendo quanto ha scritto Salvador Sostre su ABC: “Abbiamo la vita che ci aspetta e la sfida di sopravvivere. Abbiamo la nostra capacità di adattamento, la nostra umanità flessibile e meravigliosa, e ogni giorno continua a essere un regalo prodigioso e immeritato, una carezza di Dio (…) Abbiamo questo giorno, questo giorno di oggi, gli occhi, gli occhi di tua figlia oggi, i giochi di tua figlia oggi, i baci di tua figlia oggi (…) anche se di notte, se il sole non sorgesse più, abbiamo vissuto la storia di bellezza, amore e Grazia più straordinaria che sia stata mai raccontata”. Ci vuole coraggio per scrivere qualcosa del genere di questi tempi, signor Sostres.
Ma in un certo senso ha ragione: la vita oggi è più semplice che mai. La vita adesso consiste nell’obbedire e dire sì. Sì al Governo e sì a restare a casa. Sì a cucinare, sì al lavoro da casa, sì a giocare con i piccoli. E quando arrivano le 20:00, applaudire dai balconi e incontrarsi con i vicini, che come noi ringraziano quelli che danno la propria vita per salvare agli altri. In quel momento risuona un’altra volta la domanda: come si fa ad abbracciare su WhatsApp? In questi piccoli gesti si gioca anche tutto.