Si sente spesso dire “niente sarà più come prima”, oppure “non torneremo mai più come prima”: frasi così inflazionate da risultare fastidiose. Francamente, non saprei cosa ci riserva il futuro, benché, a mio avviso, in forte antitesi con il “prima” ci sia una realtà ormai compromessa: l’economia è in ginocchio e la gente è psicologicamente provata, pressoché assente, almeno all’apparenza; ciò è sufficiente a distanziare il “prima”, confinandolo in una specie di passato remoto. Credo ci sia un fattore, però, rimasto in chiaroscuro nei discorsi e nelle riflessioni di tanti: la libertà.



In questo periodo abbiamo subìto pesanti restrizioni, accettate senza colpo ferire. Prendiamo ad esempio la libertà in una delle sue forme più elementari: quella di muoversi. Per circa due mesi non abbiamo potuto percorrere tratti maggiori di 200 metri e non senza validi motivi, tra i quali i bisogni alimentari, medici e degli animali domestici. Nella “fase 2” è comparsa dapprima la possibilità di andare a trovare i “congiunti”, poi definiti dallo Stato per non lasciare troppa discrezionalità di comportamento, ma solo all’interno della regione di residenza o domicilio, non essendo in linea di principio possibile uscire dai confini regionali, se non per motivi di “improrogabile urgenza”, opportunamente autocertificati, con conseguenze penali in caso di dichiarazione mendace. Ora è caduta questa limitazione per gli spostamenti tra regioni, anche se nei giorni scorsi sul tema della riapertura non sono mancate polemiche tra diversi governatori, che si sono poi risolte favorevolmente: anche in questo caso, non si può non ravvisare lo zampino della realtà, poiché un’ulteriore prosecuzione del blocco della mobilità interregionale si sarebbe tradotta in una battuta di arresto definitiva per il settore turistico-alberghiero, dove circa il 30% di bar e ristoranti non ha aperto, né probabilmente lo farà nel prossimo futuro, con perdite di ricavi superiori al 70%, secondo le stime diffuse da Confcommercio.



Scorrendo il decreto-rilancio, recentemente varato dal Governo, mi è caduto l’occhio su un particolare, quasi insignificante. L’art. 7 autorizza il ministero della Salute “a trattare dati personali, anche relativi alla salute degli assistiti, raccolti nei sistemi informativi del Servizio sanitario nazionale, nonché dati reddituali riferiti all’interessato e al suo nucleo familiare, al fine di sviluppare metodologie predittive dell’evoluzione del fabbisogno di salute della popolazione“. Ciò in assoluta neutralità e rispetto dei principi previsti dalla normativa sulla protezione dei dati personali; tuttavia, è difficile non porsi qualche domanda: di che genere di metodologie predittive si tratta? E perché si prenderebbero in considerazione anche i dati reddituali? Forse una maggiore capacità reddituale è indice di risorse economiche funzionali a supportare da sé le cure necessarie, oppure potrebbe moltiplicare le fonti di contagio, garantendo più ampie possibilità di movimento e di contatto, tali da costringere a rafforzare i meccanismi di controllo?



La questione si interseca con lo sviluppo di applicazioni digitali in grado di tracciare ogni spostamento dei cittadini, rilevando possibili contagi e condizionandone quindi ancora più profondamente l’esistenza. Durante la giornata, lavorativa o meno, mentre sto pranzando o sto chiacchierando con qualcuno, o non sto facendo un bel nulla, ricevo un messaggio che mi avvisa di essere stato a contatto con una persona affetta da Covid-19. Pur assicurando l’anonimato, quale sarebbe l’effetto psicologico di tale notizia? Corro in ospedale o in questura?

Alla paura di uscire di casa, della prossimità fisica, che caratterizza molte persone, si aggiunge la paura di ricevere la brutta notizia, sempre tenuta lì sullo sfondo, contribuendo ad aumentare l’isolamento.

Tutto questo, peraltro, in un settore, quello sanitario, tra i più esposti ai rischi in termini di cybersecurity, perché carente di un piano organico di sicurezza e protezione, che invece in questo campo sarebbe essenziale, soprattutto a fronte del sempre maggiore utilizzo del cloud computing e dell’intelligenza artificiale, come osservato da Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, nella recente audizione in materia di semplificazione dell’accesso dei cittadini ai servizi erogati dal Servizio sanitario nazionale.

L’ingerenza nella vita intima e personale, amplificata dalle nuove tecnologie, rende il controllo sempre più pervasivo, limitando di fatto la libertà, per lo più senza che nessuno se ne accorga, come dimostrano i mesi di lockdown dove si sono vissute restrizioni senza precedenti, quasi tipiche dei regimi totalitari, giudicate sempre e comunque legittime per effetto della situazione emergenziale.

Per questo diventa urgente riflettere sull’ordine dei valori e sui loro rapporti. La salute è senz’altro un diritto fondamentale, che merita ogni tutela, del resto sancita dall’art. 32 della Costituzione, ma fino a che punto la libertà deve farne le spese, regredendo in un’ombra inconsapevole? Eppure tanti nella storia hanno preferito morire che perdere un bene così sintetico dell’umano (“libertà va cercando, ch’è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta”).

Il pericolo era già stato denunciato con chiarezza dallo stesso Soro, non in forma poetica, ma con parole che vale la pena riportare, in apertura del convegno “I confini del digitale”, del gennaio 2019: “Viviamo in un tempo nel quale la tecnologia digitale concorre alla definizione di criteri valoriali e orienta sempre più le decisioni private e pubbliche. […] Se prive di regole, le nuove tecnologie possono alimentare un regime della sorveglianza tale da rendere l’uomo una non-persona, l’individuo da addestrare o classificare, normalizzare o escludere. Ogniqualvolta ciò che costituisce la proiezione del sé nella dimensione digitale – il dato, appunto – viene considerato una mera cifra, da sfruttare senza considerarne l’impatto sulla persona, essa stessa si riduce a un’astrazione priva di individualità e, dunque, di dignità“.