Di fronte alla sfida del coronavirus i sistemi democratici non hanno reagito allo stesso modo. Si stanno confrontando due distinte modalità di risposta istituzionale: il ricorso allo stato di eccezione oppure l’applicazione del regime ordinariamente previsto per le emergenze.   

Partiamo dall’Italia, ove, dopo incertezze e conflitti non ancora del tutto sopiti, si è scelta la strada dello stato di eccezione. Una strada che ha condotto ad una quadrupla “deroga-sospensione” delle disposizioni costituzionali: sulle attribuzioni di competenze tra Regioni e Stato; sulle libertà e sui diritti civili, economici, sociali e politici; sulla forma di governo; e sul sistema delle fonti normative.



Sullo Stato si sono concentrati i poteri decisionali che spetterebbero alle Regioni; l’esercizio di non pochi diritti costituzionali è stato sospeso progressivamente da piccole porzioni del territorio a tutta la penisola; il ruolo del Presidente del Consiglio è stato trasformato dal compito di direzione della politica generale del Governo alla titolarità del potere effettivo di direzione della collettività; infine, è stato introdotto un strumento extra-ordinem, il Dpcm, formalmente legittimato solo da un decreto-legge convertito in legge.



Sinora nei rapporti con la Ue la spinta propulsiva del nostro stato di eccezione non è giunta sino al punto di deliberare, in modo autonomo, la sospensione o la deroga dei vincoli europei in materia di bilancio, vincoli che dal 2012 sono incorporati nella Costituzione. Si è proceduto, secondo le procedure consuete, a formalizzare in Parlamento la richiesta di scostamento per una cifra più consistente di quella inizialmente considerata. In sostanza, si prosegue nel chiedere tutta la flessibilità che può essere concessa.

Tuttavia, nell’ultimo video-messaggio il nostro Presidente del Consiglio ha annunciato che all’aggravarsi della situazione “non dovremo affrettarci a varare nuove misure”, “non dovremo fare una corsa cieca verso il baratro”, ma “essere lucidi, responsabili”. Ma ha assunto l’impegno pubblico, sulla base di “patto con la sua coscienza”, di porre al primo posto la salute dei cittadini. Quindi, nulla esclude che, in nome dell’emergenza, altre e più rilevanti deroghe, sospensioni ed eccezioni siano alle viste. Tra l’altro, la forte reazione del Quirinale, e a seguire dello stesso Conte, innanzi alle improvvide dichiarazioni della Lagarde, possono essere sintomi di un atteggiamento italiano proattivo e più appuntito del solito.



L’atteggio della Ue, però, non è sinora propenso a concedere null’altro che la flessibilità già permessa dalle vigenti regole europee. La Von der Leyen, nel suo sorprendente video-messaggio agli italiani, non ha promesso né deroghe, né sospensioni dei vincoli europei, ma soltanto il “pieno ricorso alla flessibilità” già prevista dal Fiscal compact. All’atteggiamento compassionevole per le gravi difficoltà che il nostro Servizio sanitario nazionale sta affrontando davanti alla diffusione contagio, è seguita qualche promessa, ma non vi è stato, ad esempio, nessun cenno su un intervento straordinario per far rimuovere le limitazioni alle esportazioni sul materiale sanitario che sono state stabilite in modo autarchico dalla Francia e dalla Germania, e che ora ci danneggiano.

E a conferma che la Ue intende muoversi sempre nel pieno rispetto delle regole vigenti, senza perciò instaurare alcuno stato di eccezione al suo interno, la Commissione europea sta decidendo di ricorrere alla clausola anti-crisi prevista dal Regolamento 1466/97 sulla sorveglianza dei bilanci, che consente di sospendere gli aggiustamenti di bilancio in caso di contrazione severa dei bilanci.

Secondo Conte, “ci prenderanno come esempio positivo che è riuscito a vincere questa battaglia”. Eppure, le dichiarazioni pubbliche che provengono da altri Stati europei non vanno in questa direzione. Dal Regno Unito con il primo ministro Johnson, all’Olanda con il premier Rutte, si è criticato apertamente il modello italiano. In Germania, la Merkel ha indicato chiaramente che la loro strada non sarà certo quella dello stato di eccezione. Ha sottolineato che il loro sistema sanitario dispone della più ampia disponibilità di posti in terapia intensiva, e ha precisato che l’interesse primario sarà quello di far funzionare le istituzioni dello Stato.

Insomma, in questi Stati europei, dove il contagio ha sinora avuto minore velocità di propagazione, si preferisce un approccio che non prevede lo stato di eccezione. E si procede programmando ed attuando interventi puntuali, mirati e settoriali sui singoli momenti di emersione della crisi sanitaria. Anche negli Usa, dopo l’iniziale sottovalutazione, le misure annunciate da ultimo da Trump, seppure con qualche enfasi, non vanno al di là della messa in campo degli ordinari strumenti di intervento e sostegno.

La così accentuata diversità nella reazione istituzionale non può imputarsi soltanto all’improvvisa accelerazione del contagio che si è avuta in Italia, anche perché, ad esempio, le condizioni in Spagna e in Germania appaiono affiancate alla tempistica francese. Allora, le ragioni devono trovarsi in qualcosa di più profondo. Forse qualche spunto di comprensione può trarsi dell’evoluzione del percorso intrapreso dalla Francia. In questo caso, sembra proprio che l’esempio italiano sia la strada che Macron abbia prefigurato nell’ultimo messaggio alla nazione, dichiarando l’avvio di misure severe su tutto il territorio nazionale, ivi compresa la chiusura di tutta l’istruzione (seppure non disponendo il rinvio delle elezioni amministrative), e non escludendo altri e più restrittivi provvedimenti. E tutto ciò dopo aver contestato le misure della Bce e il comportamento della Lagarde, e dopo aver criticato il ripiegamento nazionale di molti Stati dell’Unione.

Occorrerà verificare, nei prossimi tempi, se questa comune impostazione italo-francese sarà capace di trasformare la carica “rivoluzionaria” dello stato d’eccezione dal rispettivo piano interno a quello dei rapporti europei. Se, cioè, si sarà davvero inciso sulla costituzione materiale non solo dei rispettivi Stati, ma anche dell’Unione.

Restando sul piano interno, è certo che quando si abbandonano consapevolmente le strade tracciate dalla Costituzione, è del tutto incognita la prateria della costituzione materiale. Costantino Mortati la immaginava come quella dimensione del potere in cui le forze prevalenti impongono alla collettività la loro visione del bene comune. Sino ad ora, da noi, l’azione del Presidente del Consiglio non ha trovato ostacoli. Annichilito il Parlamento, il Capo dello Stato ha sostenuto gli indirizzi governativi, e la Corte costituzionale e i giudici non si sono mossi. Ma l’esperienza insegna che i cigni neri, soprattutto in Italia, possono sempre apparire all’improvviso. In Francia, le cose non sembrano altrettanto semplici per Macron, sia per ragioni contingenti, sia perché la sua impostazione imperiale si scontra, e non poco, con lo spirito repubblicano ancora diffuso in ampi strati sociali.

Quando, auspicabilmente in tempi brevi, terminerà la crisi sanitaria, gli stati d’eccezione si saranno trasformati nell’humus di una nuova visione del potere in Italia ed in Francia, e conseguentemente nei rapporti interni all’Ue? Avranno innescato la miccia sovversiva per un’Unione fondata su nuovi principi, o cederanno il passo? Avranno modificato i meccanismi robotizzati della tecno-governance della Ue o li avranno soltanto sostituiti con altri più favorevoli per coloro che si sono dimostrati abili nel cogliere l’attimo fuggente?

L’esito dipenderà dalla capacità dello stato di eccezione di insinuarsi e di solidificarsi nella coscienza collettiva. Tutto dipenderà da noi.   

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