Dopo il Consiglio europeo del 27 marzo 2020 tenutosi in videoconferenza nell’emergenza determinata dalle conseguenze della pandemia da Covid-19 sulla salute pubblica e sull’economia dei Paesi dell’Unione europea, è stato emesso un comunicato che “prende atto dei progressi compiuti dall’Eurogruppo” e, nelle conclusioni, invita, “in questa fase” i ministri delle Finanze della zona euro “a presentare proposte entro due settimane”. Il documento recita inoltre: “Queste proposte dovrebbero tener conto della natura senza precedenti dello shock che colpisce tutti i Paesi. La nostra risposta sarà intensificata, se necessario, con ulteriori azioni in modo inclusivo, alla luce degli sviluppi, al fine di fornire una risposta globale”.
A seguito del Consiglio che non ha accolto la proposta del presidente del Consiglio italiano di istituire dei titoli di debito pubblico “europeo” finalizzati a fronteggiare quello che durante il dibattito il premier italiano ha definito uno “shock imprevedibile e simmetrico di portata epocale”, che non tocca solo l’Italia, ma sta investendo l’Europa tutta, è intervenuto con un discorso al Paese il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dichiarando: “Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente. Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse”.
Un intenso dibattito politico e mediatico sulle iniziative economico-finanziarie da adottare si è sviluppato nelle ore successive in Italia e a livello europeo. Se una cosa ci insegna la crisi da coronavirus è la necessità di adattarsi a situazioni mutevoli e di adottare risposte tempestive, ispirate dal pragmatismo. A tutt’oggi uno strumento di debito pubblico europeo non è previsto, non immaginare . nella contingenza – soluzioni alternative che i singoli Paese possono intraprendere subordinandole all’auspicata disponibilità di queste risorse, sarebbe un po’ come dire che tutti gli ospedali che stanno fronteggiando l’emergenza determinata dalla pandemia dovrebbero fermarsi in attesa di ottenere i tanti respiratori necessari oltre a quelli attualmente in uso o che l’assistenza ai malati si deve interrompere poiché dobbiamo disporre di tutti gli apparecchi necessari. L’emissione di bond europei richiede la predisposizione di garanzie coerenti sottese. In altre parole, a fronte di debito pubblico condiviso a livello europeo dovrebbe configurarsi un bilancio pubblico comune che possa essere sostenuto da comuni entrate europee.
Non sembra quindi realistico, nella contingenza, puntare su strumenti che richiederebbero evoluzioni strutturali dell’Unione da ratificare certamente a livello di singoli Stati. A fine marzo 2020 l’Europa non ha o forse potrebbe essere di buon auspicio dire non ha ancora, gli strumenti fiscali per garantire ai mercati internazionali l’emissione di titoli di debito europei. In altre parole, nessun Paese ha trasferito all’Unione europea almeno parte delle proprie entrate fiscali destinabili a garantire l’emissione di titoli di debito sovranazionali. Le diverse criticità, a livello sanitario, determinate nei singoli Paesi dell’Ue dal coronavirus, il conseguente diverso impatto sulle economie nazionali e la diversa dimensione delle economie nazionali degli Stati membri suggeriscono un’esigenza di utilizzo delle risorse raccolte dall’eventuale nuovo indebitamento europeo comune molto differenziata, con forti sproporzioni tra Stato e Stato, mentre l’onere di un debito europeo ricadrebbe invece proporzionalmente sulle singole economie. A questo si associa il problema sotteso della condivisione dei rischi del debito pubblico comune e i vincoli anche giuridici che, in alcuni Stati, emergono nell’impiego delle risorse nell’attuale contesto di crisi. Infatti, i costi di eventuali esigenze di ristrutturazione del debito o della mancata capacità di onorare il debito sovrano da parte di alcuni Stati (in altre parole un rischio default) ricadrebbero su tutti gli altri.
Nella contingenza e con pragmatismo va ricordato che la Bce ha la disponibilità e l’intenzione di finanziare titoli di debito italiani eliminando così possibili timori di collocamento di titoli di stato italiani, prova ne sia l’andamento dello spread che si mantiene stabile e, negli ultimi giorni, dopo le dichiarazioni e le iniziative della Bce, si è ridotto. In buona sostanza non esistono le condizioni per far approvare a livello europeo una condivisione del debito nazionale derivante dall’emissione di nuovi titoli per il rimborso del quale, peraltro, sfuggirebbero i confini tra debito pregresso e debito emergenziale richiamato dalla crisi da Covid-19. Se invece fosse l’Italia o gli altri Paesi che usufruissero di queste risorse a pagarne gli interessi (e sostenerne i rischi), allora non cambierebbe nulla rispetto al contesto attuale se non relativamente al differenziale tra il minore costo di titoli Tripla A emessi dell’Ue e quello associato ai titoli nazionali (attualmente il debito italiano ha un rating BBB).
Pertanto, con pragmatismo e consapevoli delle esigenze di tempestività, non va invece scartato, per posizioni di principio proprie del dibattito politico interno, il ricorso, a condizioni che si può immaginare realisticamente di grande favore, alle risorse attivabili attraverso il Meccanismo europeo di stabilità (Mes). La linea di credito che l’Italia potrebbe ottenere è dell’ordine di circa il 2% del Pil, ma soprattutto un ricorso al Mes attiverebbe la possibilità di interventi illimitati della Bce, laddove necessari. L’ossigeno veicolabile ai nostri “respiratori” economico-finanziari sarebbe illimitato. Ovviamente sarebbe necessario, come si fa nelle terapie intensive, limitarne il ricorso alle esigenze emergenziali della pandemia. Mentre l’alternativa evocata nella negoziazione avviata a livello europeo da parte del Governo italiano sembrerebbe, in mancanza di un’adesione alla proposta di emettere titoli europei, quella di provvedere con strumenti esclusivamente nazionali, attraverso l’emissione di nuovi titoli di Stato. Rispetto a quanto praticabile nella contingenza questa soluzione pare essere pragmaticamente molto meno vantaggiosa e funzionale rispetto all’impiego di tutti gli strumenti (il Fei, il Mes, i prestiti della Banca europea degli investimenti) che la nostra appartenenza all’Unione europea e all’area euro consente, nella prospettiva di una riduzione del Pil italiano, che molti ricercatori e alcuni organismi stimano ben oltre il 10%.
L’esigenza, oltre che in termini di volume delle risorse, si pone anche in termini di canalizzazione delle risorse verso l’economia reale. Seppur spiacevole, il parallelo con la gestione sanitaria del coronavirus è evocativo: il sistema sanitario sta cercando di reagire mobilizzando tutti gli strumenti disponibili, dai semplici presidi igienici, alle apparecchiature, alla sperimentazione farmaceutica, fino alle cure cosiddette compassionevoli. Analogamente appare opportuno, prudente e pragmatico mantenere una pluralità di strumenti di politica economica utili a sostenere e rafforzare le azioni avviate con il decreto 18/2020 “Cura Italia” che, anche negli intenti annunciati dal Governo, non costituisce che una prima misura finalizzata a sostenere l’occupazione e (limitatamente) il reddito di alcuni dei soggetti economici più direttamente investiti dalla crisi e a scongiurare la scomparsa immediata delle imprese più in difficoltà.
L’ampiezza della crisi, le sue caratteristiche inedite che investono contemporaneamente il sistema economico sia dal lato della domanda, sia dal lato dell’offerta, impongono nel brevissimo termine un impegno finanziario molto superiore a quello finora prospettato e misure a supporto anche degli scenari di possibile ripresa non appena le condizioni sanitarie lo consentiranno. Il confronto con gli investimenti attuati in altri Paesi e l’importanza di progettare formule di implementazione (inedite) delle misure future richiedono un ulteriore e massiccio investimento finanziario di cui il Governo pare consapevole. In Germania le autorità cominciano a valutare scenari con perdite del PIL attorno al 20%.
Il confronto europeo dovrà necessariamente continuare poiché la natura sempre più globale delle sfide che ci attendono (la sostenibilità ambientale, le crisi regionali sempre più ricorrenti a livello mondiale, i flussi migratori, la ricerca e l’innovazione, le emergenze sanitarie) impongono sempre più risposte allargate e sicuramente non alla portata dei singoli Stati, quali che essi siano. Anche qui si ritrova un’analogia con le risposte sanitarie alle sfide future alle epidemie; come ci sarà un tempo nel quale pensare alla necessità di rafforzare il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ci sarà certamente, in futuro, l’esigenza di pensare a un’evoluzione degli strumenti finanziari dell’Unione europea determinata da una maggiore integrazione anche in chiave fiscale e quindi economica, oltre che politica, dell’Europa.
La proposta di istituire titoli di debito pubblico “europeo” a lungo termine garantiti dal bilancio dell’Ue e finalizzati al finanziamento di investimenti in grandi infrastrutture transeuropee la cui gestione economica avrebbe generato ricavi e costi, tra cui gli interessi sul debito, a valere, oltre all’onere del rimborso dei titoli, sui promotori (soggetti giuridici pubblici o privati) dei progetti, si ritrova già nel Libro Bianco “Crescita, competitività e occupazione”, del 1993, realizzato dall’allora presidente della Commissione europea Jacques Delors. Anche gli strumenti di debito europeo (Project Bond) proposti nel 2010 dall’allora presidente della Commissione José M. Barroso, potranno risultare in futuro una piattaforma di confronto tra i Paesi dell’Unione.
Nella fattispecie i titoli si immaginavano emessi per specifiche iniziative infrastrutturali pubblico-private europee. Per il momento i sistemi sanitari dei singoli Paesi e, purtroppo, in Italia, dei singoli sistemi sanitari regionali, pur nell’inadeguatezza organizzativa e nell’insufficienza delle risorse, non possono far altro che operare al meglio e con l’impiego di tutti gli strumenti disponibili. Lo stesso e senza perdere di vista l’utilità di una maggiore integrazione e cooperazione devono fare, i singoli Paesi, a livello economico. Nel dibattito avviatosi negli ultimi giorni la proposta del presidente del Consiglio italiano di istituire una sorta di gruppo di lavoro formato dai “cinque presidenti” (di Consiglio europeo, Commissione, Europarlamento, Bce ed Eurogruppo) per la formulazione di una proposta comune ha ottenuto il sostegno di altri Paesi: la Francia, la Grecia, l’Irlanda, il Lussemburgo, il Portogallo e la Spagna. Si tratta di un’aggregazione inconsueta che oltrepassa le categorie spesso evocate per rappresentare interessi particolari tra i Paesi dell’Ue: i Paesi del Sud Europa, i Paesi Mediterranei, i Paesi fondatori, le maggiori economie, i Paesi più indebitati, i Paesi a più rapida o a più lenta crescita. Questa trasversalità va valorizzata e può tradursi in iniziative di impulso ad azioni nuove, originali e di impulso a una nuova stagione dell’Unione europea.
Il gruppo di Visegrad, spesso evocato per rappresentare il club dei Paesi più “sovranisti”, fu creato, prima dell’adesione dei Paesi membri all’Unione europea, come strumento di cooperazione in ambito politico-economico, culturale. Il gruppo di Visegrad si è altresì dotato di un fondo d’investimento e di aiuto finanziario ai Paesi membri. In seguito all’evoluzione politica dei Paesi membri questo gruppo si è posto più frequentemente come “lobby” all’interno del Consiglio e della Commissione dell’Ue per rafforzare, nel quadro del sistema decisionale dell’Ue, interessi nazionali e politiche sovraniste in molti ambiti economico-politici.
A partire da questa recente e inedita convergenza di posizioni almeno procedurali tra alcuni Paesi dell’Ue, si potrebbe immaginare di istituire, simbolicamente a Milano, come epicentro (provvisorio) e prima frontiera europea esposta alla lotta alla pandemia, un Gruppo intergovernativo che cooperi più strettamente di quanto non sia possibile attualmente nel più ampio consesso europeo, al fine di elaborare proposte di sviluppo, ideare misure economiche e iniziative infrastrutturali congiunte che possano agire di complemento e costituiscano uno stimolo alle iniziative che adotterà l’Unione europea e, al suo interno, ai Paesi che si autodefiniscono “frugali”.
Le iniziative congiunte potrebbero riguardare la condivisione di risorse finanziare con il conseguente rafforzamento della credibilità delle garanzie pubbliche rispetto agli interventi, in particolare per quanto attiene alla raccolta di credito dall’emissione di titoli di stato internazionali di misura e durata definita, dalla destinazione vincolata e garantiti patrimonialmente dalle Casse depositi e prestiti (o forme affini) dei paesi del gruppo e dalla Bei allo scopo di far convergere i crediti (in particolare alla PMI) e le garanzie sui crediti deliberate a livello nazionale così da moltiplicarne la leva sul credito erogabile. Si tratterebbe di varianti dei Project Bond già varati dalla Bei e dal “Fondo Marguerite” (attivato nel 2009) con “core sponsors” costituiti dalle Casse depositi e prestiti (o forme affini) di Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna.
Gli ambiti di sicuro interesse comune potrebbero essere, tra gli altri, i seguenti:
– la logistica, considerata la presenza, tra questi Paesi, di importanti piattaforme per lo stoccaggio e per il trasporto marittimo, ferroviario e autostradale;
– le infrastrutture di trasporto, in particolare per il collegamento tra i Paesi del gruppo e quelle destinate alla difesa, quelle sanitarie o quelle sportive (stadi e altri impianti);
– la cybersecurity, nelle sue declinazioni legate alla Pubblica amministrazione, alle imprese e alla difesa;
– le energie rinnovabili;
– la ricerca, mobilitando progetti congiunti con finanziamenti misti internazionali pubblico-privato;
– la sanità, con l’istituzione di protocolli comuni di allerta, intervento e mutua assistenza; la cultura e la formazione, con iniziative comuni tra le istituzioni museali, dell’Università e della scuola.
In particolare, l’impiego congiunto di soluzioni basate sulle tecnologie digitali potrebbe favorire un risparmio complessivo e una maggiore capacità competitiva a livello internazionale dei sistemi-paese e delle imprese che operano all’interno di questo gruppo. Questa operazione consentirebbe ai Paesi membri di disporre di maggiori risorse da destinare al sostegno delle famiglie, dei lavoratori e delle imprese in particolare di quelle che operano quasi esclusivamente a livello locale nei settori dell’artigianato, del commercio e del turismo.