I dati economici arrivano sempre in ritardo, e quello che accade sui mercati finanziari il più delle volte basato su aspettative per il futuro, per natura incerte. Oggi sappiamo che nell’aprile del lockdown e dei 1.000 decessi al giorno il Pil britannico è crollato del 20,4%, un dato spaventoso, ma di fatto meno grave di quello che era stato previsto. Con l’ultima decisione di politica monetaria del 18 giugno la Banca d’Inghilterra ha stabilito di iniettare ulteriori 100 miliardi di sterline nell’economia del Regno Unito, ma con i mercati finanziari più stabili rispetto a marzo e il calo della produzione di aprile più mite di quanto atteso si è sentita in grado di ridurre il ritmo con cui avrebbe iniettato il denaro.



Il comitato di politica monetaria della banca ha votato all’unanimità per mantenere i tassi di interesse al minimo storico dello 0,1% e il verbale indicava che non è stata discussa la possibilità di portarli in territorio negativo, questione ancora in fase di studio. Grazie a questi interventi pesantissimi la Banca d’Inghilterra, così come Fed e Bce, sta tenendo a galla i mercati finanziari e quindi fornendo anche l’ossigeno finanziario alle imprese, ma è proprio la realtà dell’economia produttiva e del lavoro a segnalare che questa situazione non può durare in eterno.



Il dato del crollo del 20,4% del Pil in aprile rappresenta anche la peggiore recessione degli ultimi tre secoli. Nella sua ultima valutazione l’Ocse ha previsto che anche in uno scenario senza un nuovo picco di infezioni da Covid, la caduta dell’economia britannica sarà la più pesante in Europa. Secondo l’organizzazione internazionale, è probabile che l’economia britannica crollerà dell’11,5% nel 2020, superando le contrazioni previste in Francia (-11,4%), Spagna (-11,1%), Italia (-11,3%), e Germania (-6,6%). Questo perché in Gran Bretagna la pandemia è stata più grave e le restrizioni al settore dei servizi – tre quarti del Pil – stanno durando di più. L’Ocse menziona anche l’impatto economico della pandemia “aggravato” dall’incombente plausibile fallimento della firma di un accordo commerciale con l’Ue e nuove barriere commerciali alla fine dell’anno; raccomanda di prolungare temporaneamente la permanenza del Regno Unito nel mercato unico, ma questo è il consiglio che il Governo non ha mostrato alcuna inclinazione a seguire finora. Al fine di scongiurare nuovi shock finanziari sia Ue che Uk vorrebbero trovare un accordo, almeno minimo, da chiudere tra settembre e ottobre, ma non sembra che ci siano molti margini per un accordo senza barriere commerciali.



Anche nel mercato del lavoro nel Regno Unito si sta verificando un enorme shock. Dati ufficiali di giugno mostrano che nonostante i 9 milioni di lavoratori sussidiati dal piano di emergenza del Governo, ci sono 2,8 milioni di disoccupati a fine maggio, un aumento di oltre 1,5 milioni da marzo, suggerendo che la disoccupazione si sta già avvicinando ai livelli visti l’ultima volta nella recessione degli anni ’80. Da marzo oltre 600.000 persone hanno perso il lavoro dipendente e più di 100.000 quello indipendente. La retribuzione è diminuita in termini reali e le assunzioni sono crollate.

Il programma di conservazione del lavoro, esteso fino a ottobre, è il motivo principale per cui l’occupazione non è diminuita molto più rapidamente a causa della crisi. Con i dipendenti licenziati che ricevono l’80% della retribuzione regolare, a meno che i loro datori di lavoro non paghino i salari, il programma è anche un fattore (insieme a bonus inferiori) nel calo della retribuzione media totale, che è scesa dello 0,8% in termini reali tra aprile e maggio, a seguito di un calo dell’1,5% del mese precedente. Molte persone non sono ancora alla ricerca di lavoro, e questo probabilmente ha mascherato il vero aumento della disoccupazione, ma è quasi certo che il dato continuerà a peggiorare durante l’estate. La priorità per i ministri è evitare un’impennata della disoccupazione di lunga durata, ciò che conta davvero è quante persone tornano a lavorare quando l’economia riapre e quanti posti di lavoro diventano disponibili in nuove aree per sostituire quelli persi in settori che sono in crisi come il turismo.

La narrativa del Governo è sempre centrata sulla ripresa che arriverà quando la riapertura dell’economia sarà completa, ma ancora una volta il sano realismo dovrebbe suggerire che, a parte il rischio di una seconda ondata di Covid, Brexit è l’incognita che peserà di più sulla capacità di produrre e creare lavoro. I mercati finanziari non ignorano questi problemi, guardano lungo e anticipano. I negoziati commerciali a intermittenza tra Regno Unito e Ue hanno danneggiato il sentiment nei confronti della sterlina, così come la possibilità che la Banca d’Inghilterra persegua tassi di interesse negativi, e il disavanzo fiscale che ha raggiunto il massimo storico a seguito di un enorme aumento della spesa per sostenere imprese e lavoro.

Ha fatto scalpore una dichiarazione di un analista di Bank of America riportata dal Financial Times il 24 giugno: “Riteniamo che la sterlina sia in procinto di evolversi in una valuta che ricorda la realtà di fondo dell’economia britannica: piccola e in calo, con un crescente problema di doppio deficit simile alle valute più liquide dei mercati emergenti”. Altre dichiarazioni scioccanti sono state quelle di Paul Tucker, ex vice governatore della Banca d’Inghilterra; in uno dei suoi primi interventi pubblici da quando ha lasciato la banca centrale nel 2013 ha affermato che l’istituzione rischia di perdere credibilità nella sua indipendenza nel controllo dell’inflazione e ha avvertito che il Regno Unito potrebbe aver perso la sua reputazione di sana finanza pubblica.

È notizia delle ultime ore l’annuncio del premier Boris Johnson di un piano per la ripresa dell’economia da 5 miliardi di sterline (ossia circa 5,5 miliardi di euro). È un piano “keynesiano” narrato come il “New Deal” di Roosevelt, si punta a “rimettere in moto” l’economia con una spesa pubblica che dovrebbe generare anche investimenti privati. I 5 miliardi da mettere subito sul piatto saranno destinati al miglioramento di molte infrastrutture scolastiche malconce, mentre il piano prevede che complessivamente saranno investiti 12 miliardi di sterline nell’arco di otto anni nella creazione di nuovo spazio abitabile, investendo in particolare nella costruzione e nel risanamento di ospedali, strade e scuole.

Il principio è giusto, usare la spesa pubblica per stimolare crescita durante una recessione è ormai diventato ortodossia economica dopo la Grande crisi del 2009. I 5 miliardi erano tra l’altro già stati messi a bilancio, come spendere il resto dipenderà da chi sarà al governo nei prossimi anni. Ma in realtà nelle migliori ipotesi keynesiane questi 5 miliardi di spesa possono moltiplicarsi al massimo per due in forma di Pil. A gennaio molti economisti intervistati dal Financial Times avevano già spiegato che qualunque strategia “insulare” di investimento pubblico non avrebbe potuto rimediare alla perdita di crescita che Brexit porterà. Dati dell’istituto Brugel ricordano che il Governo ha già speso 105 miliardi di sterline per il pacchetto di emergenza e ritarderà l’incasso di altri 41 miliardi in tasse. Realisticamente di fronte ai numeri dell’emergenza il piano infrastrutture di Johnson è più tachipirina costosa che ossigeno.

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