LONDRA – Harry Truman fu il presidente degli Stati Uniti numero 33 tra il 1945 e il 1953, succedette a Roosevelt ed implementò il piano Marshall. Una delle sue celebri frasi che ancora oggi si usa è “la recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro, la depressione è quando tu perdi il lavoro”. Di quei tempi la distinzione tra i due tipi di contrazione economica non era battaglia semantica o di teoria economica. La grande depressione iniziò con una contrazione del Pil nel 1929 che durò fino al ’33; ma seguirono recessioni nel 1937-38, 1945, 1948-49, 1953-54.
Secondo una definizione convenzionale, c’è recessione quando si registrano due trimestri consecutivi di contrazione del prodotto interno lordo, e una lunga recessione di più di due anni diventa una depressione. Ma a volte le recessioni non soddisfano la regola dei due trimestri, come nel caso della recessione americana dovuta all’esplosione del prezzo del petrolio nel 1974-1975, o di quella dovuta allo scoppio della bolla azionaria legata a Internet nel 2001. Quindi la definizione da economisti, quella del consiglio nazionale per la ricerca economica (Nber) in Usa, misura la durata del periodo che va dal punto in cui l’economia smette di crescere (il picco) a quello in cui smette di contrarsi (il minimo). Tutti gli economisti sanno che periodi di espansione e contrazione sono da un certo punto di vista naturali ed inevitabili, ma anche che il grande problema delle recessioni è l’incremento del tasso di disoccupazione. Oltre alla gravità del problema dal punto di vista sociale, l’aumento della disoccupazione riduce ulteriormente consumi e produttività, quindi ogni recessione è di fatto una spirale che può diventare una depressione.
Oggi anche in Inghilterra la già tragica realtà della pandemia porta lo spettro di una lunga recessione, forse una depressione. Ancora una volta i dati medici seguono i trend italiani, ma con 3 settimane di ritardo. A Londra stiamo rivedendo i numeri del weekend lombardo del 14-15 marzo, quando si temeva il punto di non ritorno: in Inghilterra ci sono ormai 700 morti al giorno, che comprendono anche giovani e personale medico, gli ospedali sono pieni di malati critici, ci sono solo 8mila dei 30mila ventilatori che il governo ha come target. Nonostante la corsa per aprire 4 grandi ospedali da campo e le iniziative del governo nel coinvolgere aziende inglesi nella produzione di ventilatori ed altro materiale medico, l’opinione pubblica sembra ormai sempre più rassegnata all’incombenza di una tragedia e vede i grandi limiti di una risposta tardiva all’emergenza sanitaria. Ma il dibattito sulla curva dei contagi e l’opportunità o meno di ulteriori misure restrittive si intreccia inevitabilmente con il dibattito sugli altrettanto drammatici dati della disoccupazione.
Nella grande depressione del ’29 la disoccupazione americana crebbe dal 3,2% al 24,9%, in Inghilterra dal 7,2% al 15,4%. La grande recessione del 2008-10 è stata un male minore dal punto di vista della disoccupazione, che in UK è cresciuta dal 5,2% all’8%. Oggi i dati americani sono terribili: 3,3 milioni di lavoratori che si dichiarano disoccupati il 21 marzo, raddoppiano il 2 aprile, un incremento della disoccupazione dal 3,5% al 4,4% in un mese; previsioni Fed parlano di disoccupazione americana al 32% a fine anno, ben più del 24,9% del ’33.
Purtroppo in Inghilterra i dati sulla disoccupazione hanno un ritardo di 6 mesi, quindi solo a luglio sapremo di questa tragica primavera, ma stime di alcuni economisti esperti di mercato del lavoro parlano di 6 milioni di disoccupati previsti per fine maggio, che porterebbero la disoccupazione al 21%. L’unico dato presente al momento è l’allarmante richiesta da parte di già 950mila persone del sussidio di disoccupazione, decisamente già troppi per i numeri guida di un intervento che non dovrebbe essere troppo distante rispetto a quello del 2009-2010. Si parla già infatti di una caduta del Pil dell’8% per il 2020. Sarà una grave recessione, con altrettanto gravi implicazioni sociali che portano alcuni esperti a scientifici a riparlare di immunità di gregge.
Anche i trend finanziari ed i dati delle banche entrano nel dibattito. La questione non è l’eticità meno di comprare azioni a prezzi bassi (sollevata anche dal nuovo leader laburista Starmer), come proposto ai clienti dal fondo d’investimento fondato dal politico conservatore Rees-Mogg. È invece il ruolo determinante che banche centrali e banche commerciali possono avere nelle recessioni. Semplificando decenni di letteratura economica, possiamo dire che la recessione del ’29 diventò una depressione perché la banca centrale americana tenne per troppo tempo, dopo lo scoppio della bolla azionaria, i tassi d’interesse alti. Lo fece per difendere il cambio fisso del dollaro con l’oro, il gold standard, ma questo creò una deflazione senza precedenti che aggravò la crisi. Oggi la ricetta delle banche centrali è opposta: dare tutta la liquidità di cui il sistema ha bisogno per scongiurare blocchi al sistema del credito alle imprese che di fatto non ricevono più liquidità dalle loro vendite; il rischio è di fallimenti a catena. Come nel 2008, anche oggi Fed, Bce e Banca d’Inghilterra lo stanno facendo, a qualunque costo (whatever it takes).
Questa volta però le banche commerciali devono essere gli infermieri che aiutano a salvare le aziende ed i lavoratori, devono far arrivare l’ossigeno alle imprese, così come il governo deve proteggere i consumi dei disoccupati. Non è affatto semplice per almeno due motivi. Dopo la crisi del 2008 le banche devono rimanere ben capitalizzate e quindi secondo il settore finanziario la liquidità che serve dovrebbe essere ancora di più di quella enorme già messa in conto. E allo stesso tempo, come spiegato oggi, 5 aprile, dal governatore della Banca di Inghilterra Bailey, le banche centrali non possono esagerare con la liquidità fino al punto di perdere il controllo dell’inflazione: il caso estremo sarebbe monetizzare il debito del governo ed arrivare al più tipico caso di iperinflazione.
C’è un gran bisogno di sapere che nonostante le misure restrittive la Gran Bretagna ce la farà a ripartire, e nello storico intervento alla nazione fatto poche ore fa la regina Elisabetta lo ha detto. Ma poco dopo la fine di un intervento che voleva dare speranza, la Gran Bretagna scopre che il premier Johnson, malato di Covid-19, è stato ricoverato in ospedale perché i suoi sintomi non migliorano da 10 giorni. Quasi a ricordare la curva dei casi critici che continua a salire, mentre quelle dell’occupazione e del Pil continuano a scendere. Bisogna sperare, ma la vera crisi non è ancora arrivata.