Da più parti si ripete in modo ossessivo il ritornello che la nuova epidemia si trasformerà in un poderoso freno alla globalizzazione come l’abbiamo vista, o che – ma le due ipotesi non sono in antagonismo e si possono sommare tra loro – segnerà un ulteriore passo avanti verso la crisi dei nostri deboli Stati nazionali postmoderni. Linee di frattura profonde che comportano una corsa dal sapore di destino verso una nuova catastrofe bellica su scala planetaria. Si pensi agli eventi intercorsi tra le due guerre mondiali quando, arrivata nel gennaio del 1918, l’epidemia di spagnola infettò 150 milioni di persone e causò 50 milioni di morti.



Quei venti anni furono drammatici. Fallimento dell’internazionalismo democratico, ripresa dei nazionalismi, avvento dei regimi totalitari, la Grande depressione, protezionismo, riarmo, grandi potenze in competizione. In fondo al tunnel, l’inferno della Seconda guerra mondiale.

Passato proiettato nel futuro, domani immobile, destino ineluttabile. Storia dell’uomo come evento naturale.



È così? Nel nostro “dopo epidemia” non c’è altro che regresso e catastrofe?

Un dato è vero, a riprova del fatto che troppo spesso noi, umanità postmoderna, ci dimentichiamo che siamo esseri naturali, di materia che non risponde alle nostre logiche di hybris pervasive delle nostre costruzioni sociali. Con il risultato che quando scopriamo la nostra fragilità, ci spaventiamo e la paura si trasforma in angoscia senza fine e i fantasmi del passato ci riacciuffano.

Ma il futuro non è scritto, il domani non è destino.

La prima grande differenza tra la diffusione dell’influenza spagnola e l’attuale pandemia è in due fenomeni che ci forniscono molte informazioni per capire a che punto stiamo. In primo luogo, il numero di infettati e morti. Per fortuna, con un azzardo previsionale, non siamo a quei livelli del 1920 e questo dato senza dubbio è un risultato del sistema sanitario a livello internazionale e dei progressi in campo medico.



In secondo luogo, ci sono comunità, nazioni che hanno risposto meglio delle altre riducendo al massimo il numero delle vittime in assoluto e rispetto al numero degli infettati, sebbene adesso sia ancora molto difficile confrontare dati rilevati in modo diverso e quindi disomogenei. Rimane il fatto significativo che tre aree confinanti con la Cina come la Corea democratica, Hong Kong e Taiwan siano riuscite a governare la malattia e che in Europa la Germania abbia una mortalità bassissima in confronto a noi. Queste nazioni pur nelle loro assolute diversità ci dicono che sono società omogenee, fortemente identitarie, con un senso civico fortissimo perché il noi viene prima dell’io, la comunità prima dell’individuo, e che questa qualità – che noi italiani etichettiamo come monotonia e scarsità di fantasia – è un dato che viene prima della sanzione della legge. Lo Stato positivo è conseguenza naturale, non è qualcosa di giustapposto alla società civile. E la pubblica amministrazione, lo Stato, l’apparato burocratico ricambia questa fiducia riposta, offrendo ai suoi cittadini servizi efficienti ed efficaci.

Detto altrimenti, il coronavirus non è evento imprevisto, un fenomeno assolutamente insolito o, per usare una metafora in voga, un “cigno nero”. La pandemia era prevedibile, il virus corona è purtroppo evolutivo, nel 2002 arriva Sars, nel 2009 la febbre suina. Altre terribili epidemie hanno afflitto e stanno colpendo il mondo, dall’Aids a Ebola. Ma sono proprio i virus che attaccano il sistema respiratorio quelli a destare le maggiori preoccupazioni per la loro capacità di diffusione planetaria. La comunità medica e scientifica internazionale sapeva bene che sarebbe scoppiata una nuova epidemia e quali fossero le contromisure da prendere per contrastarla. Senza contare gli avvertimenti dell‘Oms, vi è per esempio uno studio del 2019 dell’Università americana John Hopkins, avvenuto in contemporanea con una esercitazione in conseguenza di tale eventualità, dal titolo già di per sé significativo Preparedness for a High-Impact Respiratory Pathogen Pandemic. Nello stesso sito del Centro si legge in modo piano ed esplicito che, tra le cause di diffusione e di morte, vi è il ricovero massivo ed in eccesso di pazienti in ospedali non adeguatamente attrezzati. Dice niente a noi in Italia?

Per evitare le tragedie, per non tirare in ballo il destino, sarebbe sufficiente che lo Stato, le istituzioni facessero il loro dovere di funzionare, che al primo posto mettessero il bene comune, il rispetto dei cittadini. Sarebbe sufficiente che il servizio sanitario avesse messo al centro i pazienti e non le malattie. Alcuni Stati ci hanno pensato per tempo, hanno fatto tesoro del passato, della epidemia della Sars, studiata a fondo, ed hanno investito in terapie intensive e in procedure, elaborato piani emergenziali adeguati. Altri, come noi, si sono fatti cogliere completamente impreparati e le colpe partono dall’alto, dal presidente del Consiglio che nonostante il decreto della Presidenza del consiglio del 31 gennaio niente ha fatto per un mese! All’organizzazione del nostro sistema sanitario e alle confusioni dell’articolo 5, ad una visione della sanità tecnocentrica e scarsamente articolata sul territorio; fattori che hanno portato alla scarsità dell’assistenza domiciliare, tanto più importante in una popolazione vecchia come quella italiana, e al sovraffollamento ospedaliero.

Allora invece di avvolgere la verità in una melassa retorica di medici ed infermieri eroi – vero, ma non avrebbero voluto esserlo, bastava distribuire mascherine, guanti, camici, sanificare gli ospedali –, in una ridicola affermazione sulla sanità “più bella del mondo” – come la Costituzione! – e di annunci e proclami dal nuovo balcone mediatico, era insomma sufficiente fare il proprio dovere di amministratori della cosa pubblica.

Prima di parlare di crisi dello Stato-nazione come sistema, sarebbe il caso allora di centrare l’attenzione sul funzionamento della pubblica amministrazione, sull’architettura dell’intero sistema istituzionale che ormai assomiglia ad una collezione di parti assemblate per rispondere a scopi diversi, nate per offrire soluzioni volta per volta, elementi che si sono andati sovrapponendosi nel tempo senza offrire nessuna coerenza né logica, né funzionale. Lo scienziato politico statunitense Stefen Teles ha coniato un neologismo per descrivere questo sistema di regole caotiche, goffe, confuse: kludgeocracy, burocrazia guazzabuglio. A riprova, basta l’esperienza di questi giorni dei decreti di emergenza, a partire dalle autocertificazioni.

Altro che “cigno nero”! Piuttosto davanti a noi era un enorme rinoceronte grigio, impossibile da non vedersi, immagine creata dalla giornalista Michele Wucker per indicare pericoli sicuri che non vogliamo vedere.

Un ultima nota sugli effetti del coronavirus sul sistema internazionale. La globalizzazione non può regredire; si possono mettere i dazi tra gli Stati, limitare i flussi di merci, si possono fermare le persone, ma la globalizzazione è la somma di comunicazione più nuove tecnologie. E niente può fermarla. Discorso diverso per i rapporti tra grandi potenze: qui bisogna essere cauti nelle previsioni, con un leggero ottimismo causato dal guadagno per tutti gli attori che partecipano a questo sistema mondo. Tutti gli Stati, chi più e chi meno, ne beneficiano, a nessuno conviene rompere il gioco. A riprova il ritrovato accordo, già ribattezzato accordo del Venerdì Santo, sul prezzo del petrolio tra Russia, Arabia e Stati Uniti. Anzi, la pandemia sortirà l’effetto di accelerare fenomeni già presenti, come nel caso dell’evidente debolezza europea, della forza della Germania e della sconclusionatezza italiana ormai sull’orlo della serie D.

Un punto a parte meriterebbe la trattazione della crisi dello Stato-nazione. Manca lo spazio, solo un accenno. Santi Romano nel 1909 scrisse Lo Stato moderno e la sua crisi.

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