Scenario da medicina di guerra o delle catastrofi quello che si è verificato nell’ospedale di Casalmaggiore, in provincia di Cremona. Un’emergenza così grande quella che ha provocato il coronavirus qui che si è dovuto scegliere tra chi intubare e chi no. Lo ha confessato il professor Mario Riccio, primario di rianimazione e anestesista di Piergiorgio Welby, malato di Sla che assistette nella sua fine. «Dare a tutti un posto letto in terapia intensiva non era possibile. Chi sostiene il contrario crede alle favole. Le nostre risorse non erano assolutamente adeguate». Questa la confessione a Repubblica. Ci siamo detti che andrà tutto bene, e forse sarà veramente così. Ma non possiamo ignorare quello che è accaduto, le criticità che hanno imposto ai medici decisioni difficili. «Trincea pura. Sembrava di essere precipitati in un brutto film d’azione americano», afferma Riccio, che è anche consigliere dell’associazione Luca Coscioni. Quelle raccomandazioni della Siaarti (Società di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) che fecero scalpore non sono rimaste lettera morta.



MARIO RICCIO “UNO SU TRE NON INTUBATO DURANTE EMERGENZA”

Di fronte all’emergenza coronavirus i medici hanno dovuto scegliere chi curare e chi “lasciare” al suo destino. «Era materialmente impossibile intubare tutti», dice Mario Riccio a Repubblica. Il primario di rianimazione a Casalmaggiore (Cremona) ammette che si è scelto tra «chi intubare e chi invece assistere solo con caschi e mascherine per l’ossigeno». Ma ogni decisione non è stata mai presa in maniera affrettata. «Ci siamo consultati e abbiamo valutato attentamente le condizioni dei pazienti. Abbiamo imparato presto che gli ultraottantenni con due o più patologie non avrebbero avuto chance». Ed è finito tutto nero su bianco: «Spesso sulla loro cartella clinica abbiamo dovuto scrivere che mancavano le indicazioni per l’intubazione». È accaduto spesso nella fase più acuta dell’emergenza coronavirus. «Nei primi venti giorni di marzo, abbiamo rinunciato a intubare un paziente su tre». Non si è tenuto conto però solo dell’età. «Non guardiamo la carta d’identità e via. Abbiamo scelto in base alla condizione generale e alla presenza di altre malattie». Ciò che in quelle linee guida della Siaarti viene indicato con l’espressione “speranza di vita”.



“IMPOSSIBILE AIUTARE TUTTI, MA NON ABBIAMO ABBANDONATO NESSUNO”

Quel documento – può sembrare assurdo – ha dato sostegno ai medici: «Ci ha fatto sentire meno abbandonati», dice il professor Mario Riccio a Repubblica. E potrebbe citarlo a suo sostegno se dovesse finire in giudizio. C’è infatti il timore che qualche parente possa denunciarli, ma lui spera che non succeda. «Vorrei che quel che è successo sia messo agli atti, diventi documento storico». Non sono mancate le tensioni con i parenti dei malati di Covid-19: «All’inizio ci insultavano, ci minacciavano per telefono. Poi è successo qualcosa, come se anche loro avessero iniziato a rendersi conto dell’enormità di ciò che stava accadendo». Così è cominciata la solidarietà. Ma quei pazienti non intubati non sono stati lasciati soli. «Non avevamo i mezzi per salvarli. Ma li avevamo, e li abbiamo sempre usati, per alleviare la loro morte. Nessuno se ne è andato da solo, senza la nostra assistenza, e nessuno se ne è andato senza tutte le cure palliative di cui aveva bisogno», afferma il primario di rianimazione di Casalmaggiore (Cremona). Per i medici è stata dura non poter salvare tutti. «Ho avuto l’impressione che noi medici per primi ci siamo sforzati di negare la realtà, compiendo un’operazione di rimozione».

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