Il Coronavirus ci pone domande decisamente scomode: fino a quando potremo dire che la vita umana non ha prezzo? Quanto siamo disposti a spendere e a perdere nella lotta al virus? Il settimanale inglese The Economist se lo chiede apertamente: quanto saremo capaci di mettere sempre la vita umana – la vita di qualunque essere umano, di qualunque età e di qualunque condizione fisica – prima di ogni altro genere di considerazione, che tuttavia prima o poi potrebbe dolorosamente dovere essere posta?



Domanda delicatissima, perché coinvolge potremmo dire ogni ambito della vita umana in questa pandemia di Coronavirus. Che si tratti “semplicemente” di una difficoltà strutturale (ad esempio, più persone da rianimare rispetto ai macchinari disponibili) piuttosto che di un calcolo economico (reggerà il sistema alla lunga?), si potrebbero scontrare concezioni etiche diverse.



Interessi e doveri, principi e realtà si intrecciano in queste settimane in cui la situazione è precipitata praticamente ovunque, mettendoci davanti alle domande che l’Economist si pone in maniera esplicita nella sua edizione di questa settimana, per forza di cose incentrata sull’emergenza Coronavirus.

CORONAVIRUS E “IL PREZZO DI UNA VITA”

“We’re not going to put a dollar figure on human life”: le parole del governatore di New York Andrew Cuomo aprono l’analisi dell’Economist. Cuomo infatti ha detto che una vita umana non ha prezzo, che per salvare vite non si deve badare a spese, che i conti si faranno dopo, che ogni persona negli ospedali va curata a qualsiasi costo. Questa è la filosofia che fin dal Medioevo portò alla nascita dei primi ospedali, dove in realtà si poteva magari fare poco ma si stava vicino a ogni malato per quanto possibile.



The Economist si è però chiesto: fino a quando ciò sarà sostenibile, fino a quando potremo permetterci di dire che una vita umana non ha prezzo? Calcolare “il prezzo di una vita” d’altronde può anche servire: all’inizio della crisi Covid-19 negli Usa Donald Trump diceva che la cura sarebbe stata peggiore del male, per i danni economici che avrebbe comportato. Poi si è capito che la diffusione incontrastata del virus avrebbe ucciso un milione di persone in più, così si è deciso di chiudere tutto e spendere l’equivalente di 60 mila dollari a famiglia.

In questo modo, l’America può dire oggi che il costo della chiusura è di gran lunga superato dalle vite salvate. The Economist però va ancora oltre e si chiede se potrà essere così sempre e ovunque: in India ad esempio, se il lockdown non dovesse funzionare, i calcoli potrebbero essere tristemente ben diversi.

CORONAVIRUS: “OGNI SCELTA HA UN COSTO”

Ogni scelta ha costi sociali ed economici. Sarà importante riuscire ad aiutare chi le pagherà di più: ad esempio i lavoratori che perderanno il posto a causa delle chiusure dettate dalla crisi, oppure in certi Paesi i bambini che non andando più a scuola non hanno più nemmeno il pasto per loro vitale che proprio la frequenza scolastica garantiva. In generale i giovani, su cui cadrà gran parte del costo della malattia anche in futuro, con tutto il debito che i loro Paesi accumuleranno.

Inoltre sarà doveroso sfruttare il tempo guadagnato con la chiusura per prepararci a un ritorno del virus. A tutte queste domande infatti al momento è difficile rispondere: quanto ci vorrà per avere vaccini e cure efficaci? Con l’estate, le economie avranno subito crolli a doppia cifra, mentre mesi di reclusione casalinga avranno minato coesione sociale e magari anche la salute mentale di molti.

Ecco perché secondo l’Economist alla fine della pandemia di Coronavirus “il costo del distanziamento potrebbe superare i benefici“, anche se ciò “ancora nessuno è pronto ad ammetterlo”. Al momento ci restano tante incognite, tanti interrogativi, tanti dubbi e tante paure: The Economist ipotizza uno scenario tra i peggiori, gli Stati però certamente hanno il dovere di prepararsi ad affrontare anche questo.