Sembrano solcare uno sconfinato palcoscenico i monumentali personaggi (circa quattrocento) che Michelangelo ha “scolpito” affrescando il giudizio universale della Sistina. A guardarlo nel suo complesso, l’occhio quasi si perde nella congerie di corpi la cui grevità popola questo “strano” cielo abitato da una folla sterminata. 



Lo sguardo viene catturato dalla suggestiva teatralità dei volti, degli atteggiamenti, delle espressioni che ci scorrono dinanzi con quella particolare lentezza propria delle riprese cinematografiche passate al rallentatore: torsioni di corpi, groviglio di membra, solennità di gesti, posture scomposte, assembramenti, lacerazioni, violenza, immagini orride, grottesche, mostruose: ogni particolare assurge a protagonista di questa suggestiva narrazione nella quale Michelangelo sembra preconizzare, attraverso il dramma che si va consumando sulla scena, l’ineluttabile destino di ciascun personaggio: chi, vinto dalla disperazione, si accascia rassegnato in attesa dell’eterna condanna; chi, spalancato alla speranza, umile si protende verso la schiera degli eletti.



Si mescolano così, come nella vorticosa altalena della Storia, il sacro e il profano, incarnandosi proprio in queste forme la cui statuaria imponenza ci raggiunge e ci provoca quasi ad anticipare il destino che tutti ci attende alla fine dei tempi.

Caro cardo salutis! Questa carne, cardine della salvezza, Michelangelo la ostenta, la espone, la offre al nostro sguardo riottoso, fino a farcene percepire tutta la vergognosa nudità e al tempo stesso la gloria, frutto di quel disegno divino che porta il nome di Redenzione. 

Riecheggiano i canti dell’Inferno dantesco nel genio pittorico che affrescò la Sistina: sul solco dell’Alighieri, anche il Buonarroti immagina un Caronte traghettatore, non più di anime questa volta, ma di corpi che, minacciati, bastonati, offesi, vengono spinti sulla riva inospitale destinata ai dannati. 



Proprio qui, in corrispondenza dell’altare dove viene celebrato il sacrificio eucaristico, memoriale perpetuo di quello divino, Michelangelo ha scelto di collocare l’oscuro antro dell’inferno dal quale emergono, mostruosi, profili di diavoli dalle fattezze scimmiesche. 

Non tende tuttavia a ridursi questa violenta e disordinata accozzaglia neppure quando lo sguardo comincia a risalire e, orientandosi verso il cielo, si fa largo tra plastiche nuvole biancastre, private della loro spumosa leggiadria e capaci di supportare – quasi si trattasse di solidi piani d’appoggio – l’universale “resurrezione della carne” che fin dalle proprie origini, il cristianesimo crede.

Mancando di una sua autonoma struttura – osserva il Partridge in una interpretazione del Giudizio universale (cfr La cappella Sistina. Il Giudizio restaurato, De Agostini, Novara 1998) – l’affresco favorisce, come mai in analoghe opere si era evidenziato prima, l’illusione che manchi la parete e che la Seconda Venuta di Cristo si svolga per così dire in “tempo reale”, sotto gli occhi stessi dei fedeli. 

Pertanto, dopo lo sconcerto iniziale generato da quel vortice avvolgente di figure che coglie impreparato qualsiasi spettatore, è possibile, ad uno sguardo più attento ed accorto, riconoscere, come acutamente ebbe ad osservare il Longhi, “una partizione di piani sovrapposti senza riguardo tuttavia all’unità della nostra visione che dovrebbe spostarsi e salire di piano in piano, invece di abbracciare in totale tutta la composizione”.

Diviso tra le “richieste teologiche e le imposizioni dello stile” (cfr R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana, Sansoni ed. Firenze 1988), Michelangelo aderisce con rigore al baluardo dell’ortodossia appellandosi ai testi sacri che utilizza come uniche fonti per strutturare l’impianto complessivo  dell’opera.

E d’altra parte – è ancora il Longhi a parlare – “non può dipingere beati che salgono al cielo volando senza peso, ma soltanto corpi che fanno la scalata al cielo puntellandosi a fatica sulle nubi solide come rocce; e più volentieri che beati, dipinge dannati fra le strette dei diavoli; e per dipinger angioli crea non esseri anfibi in pose pie, ma ercoli che provano le proprie muscolature con gli strumenti della Passione: una croce e una colonna”.

Sono passati quasi cinque secoli e anche noi – come Michelangelo – siamo chiamati a scegliere non più cosa dipingere, bensì cosa fissare di quest’opera “titanica” per dimensioni e personaggi. L’invito diventa ben presto un imperativo allorché lo sguardo, abbeverandosi stupito alla multiforme complessità dell’affresco, rinuncia tuttavia ad un’analisi puntuale, privilegiandone invece il nucleo sintetico ed espressivo che prende vita nella vigorosa imponenza della figura centrale: è Cristo, sovrano assoluto e incomparabile di questo capolavoro, a dominare la scena fino a diventarne il perno intorno a cui tutto ruota e si ordina scoprendo così la propria funzione e il proprio scopo.

Nel gesto ampio e solenne che, da solo, par fornire all’opera il suo imperituro destino,  riecheggiano potenti le parole del salmo 75, commento pregevole e singolare a questo universale giudizio: “Splendido tu sei, o Potente, sui monti della preda;” e ancora: “Quando Dio si alza per giudicare, per salvare tutti gli umili della terra, l’uomo colpito dal tuo furore ti dà gloria, gli scampati dall’ira ti fanno festa” (Sal. 75,5.10-11). 

Come a dire, insomma, che quando Dio pronuncia il Suo giudizio, lo fa esclusivamente per la salvezza purché l’uomo si mantenga povero nella struttura ultima del proprio essere! Questo dunque il monito di Michelangelo che, ben lungi dal volerci terrorizzare con immagini truculente, chiede piuttosto a ciascun fedele la libertà di aggrapparsi a quella mossa vittoriosa di Cristo che nessuno respinge di quanti il Padre gli ha dato, ma tutti redime in forza di una Misericordia che sempre ha la meglio nel giudizio (Gc 2,13).