Alla fine, per finire, ha fatto i conti: ha voluto che fossero fatti tutti i conti. E, sommato tutto, tutto sommato capì che ciò che aveva fatto fino allora non era il minimo sufficiente: “Perché non si scomodassero sono andato a casa loro, li ho presi per mano, li ho allevati come si alleva l’amore primogenito. Eran in quattro a Tiberiade, quattro pescatori di numero: li ho fatti diventare una comunità, il più invidiato gruppo d’assaltatori della storia. Ho aperto loro la strada, ho detto loro di non fare null’altro che quello che avevo insegnato, mi son fatto in quattro per dar loro un indirizzo. Eppure non basta!”.



Questo, più o meno, fu il ragionare del Cristo, Figlio di Dio, nell’ultima cena. Sciacquò loro pure l’alluce, il mignolo, tutte le dita dei piedi: “Più in basso di così, non potrà andare. Già mi è di scandalo”, è PietroSimone a bisbigliarlo. Il Cristo dell’Ultima Cena è un re che ha abdicato il potere nelle mani dei suoi sudditi. Poi, d’un tratto, ancora giù, più giù dei piedi, in fondo alla pancia: “Prendete (e mangiate), questo è il mio corpo”. Non solo il pavimento, anche lo stomaco degli amici va a santificare: il Re, d’allora, è il Re che si fa mangiare, masticare, deglutire. Dio tascabile, l’uomo è tabernacolo ma tutt’ora, sovente, non vuol saperlo d’essere. Dio, invece, continua: “Mangiami!”.



Prova a dire, d’allora, che il Corpo non conta: “Questo è il mio corpo (cfr Mc 16,22-26) dice Dio agli amici. C’è del pane, s’è fatto (di) Pane: “È un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi” recita la sequenza del Corpus Domini. E il Dio dei filosofi – l’essere perfettissimo, immutabile, impassibile – dov’è andato a finire? In quel tozzo di Pane da mangiare abita, come al civico quarantuno di via Roma: un Dio tremante, timoroso, inquieto davanti alla possibilità di non trovare “quel peccatore che se n’è andato e che ha rischiato di perdersi” (C. Péguy).



Il Giuda, l’Iscariota, s’impiccò col Pane in pancia: proprio lui che non voleva più avere a che fare con Iddio, finì per andarsene con Iddio nel corpo: “Non posso forzare la tua libertà, amico – deve avergli confidato Gesù –, ma tu non potrai impormi di andarmene da te. Verrò con te ovunque, mi sei caro, Giudammio!” (Il Corpo di Cristo, Giuda. Amen). Quella briciola di Pane, deglutita come medicina dalla più lurida delle anime, è la speranza di Dio nell’attesa che il peccatore si converta: “Bisogna che aspetti che il signor peccatore abbia la compiacenza di pensare un poco alla sua salvezza – scrive Péguy ne Il Mistero della carità di Giovanna d’Arco –. Colui che ama cade in schiavitù di colui che ama”.

L’uomo, quaggiù, si diverte a giocare con il “Gratta e Vinci”; Cristo, invece, ha inaugurato la prima della serie di partite del “Vinciperdi”. Nel Pane – l’Ostia consacrata – Dio gioca con l’uomo: “È il caso di dirlo – continua il buon peccatore Péguy –, noi giochiamo a vinciperdi. Per lo meno lui, perché io, Dio, se perdessi perderei. Ma l’uomo, quando perde, è solo allora che vince. Singolare gioco, io sono il suo compagno e il suo avversario. Lui vuole vincere contro di me, cioè perdere. Io, suo avversario, voglio farlo vincere”.

È il gioco di Dio l’eucaristia, con una sola regola: non c’è amore, salvezza, senza la libertà. “Se lo sostengo troppo, non è più libero. E se non lo sostengo cade (…) Quando ho il (suo) cuore, trovo che va bene. Non sono difficile” dice il Dio di Péguy. Dove lo si trova un Altro così?

In quel pezzo di Pane, Dio è disarmato: non è più l’uomo ad essere nelle mani di Dio, tutto si rovescia: è Dio ad essere nelle mani dell’uomo. Un giorno intuiremo che niente è più bello dell’essere amati da un Dio libero. Non da un borioso feticcio, ma da un Dio la cui unica paura, giocando a vinciperdi, è di non riuscire a salvare l’uomo: “Io gioco spesso contro l’uomo, dice Dio, ma è lui che vuol perdere, l’imbecille, sono io che voglio che vinca. Riesco qualche volta a far sì che vinca” chiude Péguy. Prova a dire che il Corpo (di Cristo) non conta: quando si è gustato una volta l’essere amati liberamente, tutto il resto è servitù. “Il Corpo di Cristo, Marco (Amen)”: è la mia partita quotidiana di vinciperdi.

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